02/04/18

«Naughty Pete», il gioiello di Charles Forbell


[Una versione ridotta dell’articolo è stata pubblicata su Fumettologica il 14/3/2018.]

Nei primi anni del ‘900 una delle figure più caratteristiche e ricorrenti nelle strisce a fumetti statunitensi era quella del bambino monello. Le sue incarnazioni più celebri furono i gemelli Hans e Fritz della serie The Katzenjammer Kids, creati nel 1897 da Rudolph Dirks e noti in Italia come Bibì e Bibò, e il Buster Brown di Richard Felton Outcault (1902), ma il grande successo ottenuto da queste strisce, com’è naturale, portò molti altri autori a imitarne la formula, e così pressoché tutti gli inserti domenicali dei principali quotidiani dell’epoca traboccavano di variazioni più o meno spudorate sul medesimo tema.

Alcuni autori geniali seppero comunque reinventare il modello, o rivisitarne gli elementi chiave, fino a confezionare parodie originali e non meno attrattive agli occhi del pubblico: così in Foxy Grandpa (1900) di Carl E. Schultze i due monelli sono affiancati da un nonno arguto e spiritoso che dà loro del filo da torcere, e nel Little Jimmy di James “Jimmy” Swinnerton (1904) un bambino adorabile e tutt’altro che pestifero finisce sempre nei guai con gli adulti e i bambini più grandi perché è smemorato, sfortunato e ingenuo, mentre per via di un espediente analogo il Little Scary William di Charles M. Payne (1905) e Harold Knerr (dal 1906) provoca danni senza volerlo, sopraffatto da ansie e paure a dir poco sciocche. Diversi autori diedero vita a versioni animalesche con funny animals antropomorfizzati, e ci fu anche chi realizzò parodie ancor più radicali, ribaltando completamente i ruoli definiti dalla tradizione: è il caso della striscia Dad in Kidland – creata da Hans Phildius nel 1911 e poi proseguita da Ed Carey –, incentrata sulle disavventure quotidiane di un padre affetto da infantilismo, e dunque trattato dai figlioletti alla stregua di un bambino piccolo.

Hans Phildius, Dad in Kidland (11/6/1911)

Winsor McCay, Little Nemo in Slumberland (3/12/1905, dettaglio)

La stessa serie che quest’ultimo titolo richiama in forma parodica, ovvero la celeberrima Little Nemo in Slumberland di Winsor McCay (1905), è in senso lato ascrivibile al filone come variante metaforica, e non solo perché traduce in immagini oniriche l’incontenibile vita interiore del bambino protagonista (ovvero un territorio di pulsioni e fantasie sul quale i suoi genitori non possono esercitare alcuna forma di controllo), ma anche perché le sue avventure si concludono tipicamente con la rumorosa caduta dal letto e il conseguente rimprovero della madre o del padre, a ricordargli che è bene non mangiare dolci o noccioline prima di andare a dormire. Anche il suo immediato predecessore, Little Sammy Sneeze (1904), riusciva del resto a causare disturbo ai grandi senza volerlo e senza nemmeno muoversi dal suo posto, soltanto per mezzo di poderosi starnuti: la parodia, sia nel caso di Nemo che in quello di Sammy, consiste insomma nel rappresentare bambini che pur distanziandosi il più possibile dai canoni tipicamente associati alla figura del monello (perché introversi, passivi e paurosi) risultano altrettanto molesti per chi li circonda. Uno dei maggiori meriti del lavoro di McCay risiede poi nella ricercatissima sperimentazione grafica caratteristica di ogni sua tavola, tanto più notevole per le diverse soluzioni stilistiche se rapportata a una tradizione di storie, quale per l’appunto quella dei bambini terribili, dove la comicità è di natura soprattutto iterativa, poiché fondata sulla continua ripetizione di situazioni fortemente tipizzate.

L’illimitato dominio dei sogni e un talento più unico che raro permisero insomma a McCay di sviluppare una moltitudine di storie non solo assai differenti l’una dall’altra, ma anche per molti aspetti uniche e imprevedibili nella loro realizzazione grafica, senza però travalicare i confini di una cornice narrativa sempre uguale, costituita dall’immancabile risveglio di Nemo nella vignetta conclusiva di ogni avventura. Un’operazione affine è stata tentata più in piccolo da Gus Mager nella curiosa serie What Little Johnny Wanted and What Little Johnny Got, pubblicata nell’autunno del 1906 ma talmente unica nel suo genere da essere stata idealmente accostata a capolavori comparsi diversi decenni più tardi, come i libri di Maurice Sendak (in particolare Where the Wild Things Are) e la serie Calvin and Hobbes di Bill Watterson.

Gus Mager, What Little Johnny Wanted and What Little Johnny Got (28/10/1906)

Per rappresentare il grande divario che esiste tra le fantasie di un bambino e la sua realtà quotidiana Mager ha scelto di sottolineare tale scissione, molto marcata anche nel Little Nemo di McCay, per mezzo di un inedito sdoppiamento del titolo, la cui seconda parte campeggia non in cima alla striscia, ma sopra l’ultima vignetta. Altri elementi inconsueti della striscia di Mager sono la sua estrema stilizzazione grafica, agli antipodi rispetto ai ricchissimi disegni dal gusto Art Nouveau di McCay, e l’assenza sia di balloons che di didascalie esplicative. Quanto all’immaginario infantile rappresentato, come ha osservato Paul Tumey, mentre il piccolo Nemo di McCay sognava palazzi di ghiaccio, letti danzanti e architetture Rococò, più realisticamente i sogni del piccolo Johnny di Mager sono sogni di massacri, omicidi e torture. Tutto ciò, ça va sans dire, non incontrò all’epoca un interesse del pubblico tale da spingere Mager a proseguire la serie, che difatti venne interrotta dopo appena cinque episodi.

Un caso ben più clamoroso è quello di Charles Forbell, illustratore e fumettista che nel 1913, a ventinove anni, realizzò una serie che interruppe dopo qualche mese, per un totale di diciotto episodi, e che tuttavia sarebbe stata destinata a diventare con quasi un secolo di ritardo, per i cultori più consapevoli, uno dei gioielli più fulgidi nella storia del fumetto. L’inserzione pubblicitaria che annunciava la comparsa di Naughty Pete sulle pagine domenicali del New York Herald e dei quotidiani associati ne parlava come di un fumetto di grande attrattiva, in grado di divertire sia bambini che adulti (formula del resto utilizzata per sponsorizzare molte serie dell’epoca, a cominciare dai Katzenjammer Kids), ma soprattutto in grado di coniugare le diverse suggestioni offerte dal panorama fumettistico. “The Comic contains the human interest of Buster Brown” (leggi: tratta di situazioni quotidiane ampiamente condivisibili da chiunque sia stato un bambino o abbia in casa un bambino), “with drawings as original as Little Nemo in Slumberland […] and with the artistic qualities of Mr. Twee Deedle” (la deliziosa serie fiabesca e surreale di Johnny Gruelle che dal 1911 al 1914 sostituì proprio il Little Nemo di McCay sulle pagine del New York Herald).

Poste queste premesse, che molti lettori avranno accolto già allora col beneficio del dubbio, e trattandosi peraltro di una striscia creata da un autore praticamente sconosciuto (e difatti mai menzionato nell’annuncio) sulle birichinate di un bambino comune, il risultato avrebbe dovuto con ogni probabilità attestarsi molto al di sotto di quanto dichiarato dagli altisonanti proclami. Contro ogni previsione Forbell realizzò invece un prodotto davvero raffinato e fuori dal comune, capace di mostrare a pieno regime la sua carica dirompente già a partire dalla tavola di esordio, pubblicata il 10 agosto 1913. Il piccolo Pete ci viene qui presentato sui pattini a rotelle, mentre disobbedendo al padre scivola lungo una strada in collina, sfreccia in discesa tra la gente e capitombola infine per terra, a tu per tu con un vigile. Non ci sono balloons, e i pochi testi presenti, se si esclude il discorsetto del padre nella prima vignetta, riportano solo brevi pensieri di Pete. L’ultimo di questi, “I guess Pop was right”, è il motto che chiuderà di volta in volta le piccole disavventure quotidiane del monello, sempre modellate sullo stesso schema narrativo dove all’ammonimento iniziale del padre segue la puntuale trasgressione da parte del bambino e il suo tardivo ravvedimento finale.

Charles Forbell, Naughty Pete (New York Herald, 10/8/1913)

L’immagine del piccolo Pete che sfreccia sui pattini riassume meglio di molte parole il senso estremo di libertà che si respira in ogni tavola della serie. Più che quello della monelleria, a ben vedere, il nucleo tematico centrale di ogni avventura riguarda un particolare tipo di emozione, corrispondente allo stato d’animo che il bambino prova nel momento in cui si trova assolto da qualsiasi forma di controllo parentale, oltre ovviamente alla grande ingenuità che finisce sempre per causargli dei guai imprevisti. Il pendant stilistico di questa libertà è l’originale sperimentazione grafica propria di ogni singola vignetta, con soluzioni spesso inedite e all’avanguardia. La tavola d’esordio è in questo senso un vero distillato del talento creativo di Forbell: dalla composizione dinamica della pagina, con vignette di dimensioni e forme diverse che subiscono un progressivo ingrandimento, all’uso di un cromatismo intenso ottenuto accostando pochi colori molto contrastati; dalla discreta resa testuale dei pensieri di Pete all’insolita collocazione del titolo a metà pagina, fino all’efficacissima stilizzazione dei personaggi che vede il bambino rimpicciolirsi in determinate vignette, come di fronte al padre e al vigile.

La sperimentazione proseguì poi di settimana in settimana, al punto che ogni tavola di Naughty Pete non assomiglia nemmeno vagamente a quella che la precede o la segue: la tavolozza di colori si rinnova di volta in volta con esiti quasi sempre notevoli per efficacia espressiva; le vignette cambiano forma, grandezza o disposizione per meglio assecondare il fluire della storia (sono di forma fissa o variabile; quadrangolari, circolari o di forma irregolare; compatte o distanziate; strette o allungate); il titolo cambia dimensioni e carattere ed è ora in fondo alla pagina all’interno di una vignetta, ora relegato al margine e quasi invisibile, ora centrale e bene in risalto in uno spazio appositamente ritagliato; i pensieri di Pete sono riportati ora in tondo e ora in corsivo, come a mimare la grafia del bambino; e così via.

Charles Forbell, Naughty Pete (New York Herald, 17/8/1913)

Gli esperimenti di Forbell sono comunque sempre al servizio di una narrazione, o per meglio dire, data la grande rilevanza dell’elemento grafico, di una rappresentazione. Per questo motivo, se a livello contenutistico le singole scenette ricalcano da vicino le convenzioni del genere, è proprio il modo in cui esse sono state trasposte sulla pagina a fare di Naughty Pete un piccolo capolavoro di stile. La seconda tavola della serie mette ad esempio in scena la classica gag della canna dell’acqua, che ha segnato il debutto cinematografico della slapstick comedy (con L’arroseur arrosé di Louis Lumière, 1895) e quello fumettistico dei gemelli terribili per eccellenza, i Katzenjammer Kids di Rudolph Dirks (12 dicembre 1897). Ora, rivisitando una gag a tal punto trita e ritrita, Forbell è riuscito nell’impresa di renderla coinvolgente su un piano diverso, focalizzando l’attenzione non sulla tipica sequenza “delitto e castigo” (le azioni di Pete non sono dirette intenzionalmente contro alcuna persona, né il bambino viene alla fine punito), ma su tutto ciò che in termini di movimento, scoperta, meraviglia e delusione caratterizza l’esperienza del piccolo. La canna dell’acqua diventa così un ottimo espediente per rendere a livello grafico le rocambolesche evoluzioni di Pete, in una rappresentazione dove ogni dettaglio – dagli intrecci della canna, simili ad arabeschi, alle varie direzioni del getto d’acqua e alle posture acrobatiche del bambino – riflette e amplifica un senso generale di sfrenata imprevedibilità.

Un terzo e ultimo esempio della genialità di Forbell può essere tratto dalla quindicesima tavola della serie, che è anche la più famosa. Riprodotta sulla mitica Smithsonian Collection of Newspaper Comics curata da Bill Blackbeard e Martin Williams (1977), ovvero sul volume che per primo rappresentò una fonte autorevole e accessibile per la riscoperta di molti fumetti delle origini e dei loro autori, la tavola catturò l’attenzione di un giovane studente di nome Chris Ware, che anni dopo ne avrebbe parlato in questi termini: “Per molti anni, la pagina per me più interessante e misteriosa della Smithsonian Collection of Newspaper Comics fu una singola gemma grezza (‘rough-cut gem’) di Charles Forbell, intitolata Naughty Pete. La striscia presentava un ragazzino un po’ alla Little Nemo mentre scivolava giù da una lunga scala verso l’inevitabile distruzione della copia in gesso di una statua greca. Contro il verde delle pareti il ragazzino risalta in un bianco puro, i suoi genitori in un rosso sangue, e l’intera tavola è circondata da un pesante e denso nero. Qualcosa della sua semplicità netta e isometrica si incise nella mia mente e lì si conficcò; io continuavo a ritornarvi quasi altrettanto spesso di quanto scorrevo le tavole di Gasoline Alley, Krazy Kat e Polly and Her Pals, e ciò continuava ad assillarmi come un indizio di ‘ciò che volevo sperimentare coi fumetti,’ qualunque cosa fosse.”

Charles Forbell, Naughty Pete (16/11/1913)

Chris Ware, Building Stories (2012)

Lo stesso Chris Ware tributò un omaggio a Charles Forbell in una tavola di Building Stories (2012) chiaramente ispirata alla storia della scala e della statua del piccolo Pete, a cominciare dalla felicissima soluzione grafica della grande vignetta diagonale. Volendo sintetizzare la maestria di Forbell in una singola immagine, questa sarebbe forse la più indicata. Da un lato, il movimento di Pete che scivola sulla scala è accompagnato dall’inclinazione della vignetta, oltre che dai consueti segnali grafici (linee e nuvolette) e dal testo che riporta i pensieri del bambino, anch’esso inclinato; dall’altro – e questo è un dettaglio probabilmente più importante – l’espressione di tale movimento è resa più efficace perché preceduta da una serie di vignette che la anticipano in modo implicito (essendo orientate sempre in senso diagonale verso il basso), ma che per il modo in cui sono suddivise in piccoli fotogrammi, oltre che per il fatto di rappresentare tre azioni di Pete che ne presuppongono una quarta (salita-discesa-salita), riescono a conferire alla scena un marcato effetto di suspense.

Si è spesso parlato del fumetto delle origini in rapporto alle altre arti, e in modo particolare, per la comparsa quasi simultanea, ai primi cortometraggi cinematografici. La sequenzialità di una serie come The Katzenjammer Kids richiama subito alla mente i tempi comici delle più antiche commedie slapstick, e a sua volta anticipa quelli che sarebbero stati i primi cartoni animati, mentre delle prospettive visive adottate da McCay in Little Nemo in Slumberland si può dire che abbiano precorso i tempi in modo ancora più mirabile, sperimentando sulla carta diverse possibilità espressive che in campo cinematografico sono legate sia al montaggio che alla posizione e al movimento della macchina da presa. 

Nel caso del Naughty Pete di Forbell, così come di altri fumetti sperimentali delle origini, una tentazione allettante è quella di definire la sua particolarità facendo ricorso al concetto di avanguardia artistica, ovvero a una categoria mutuata dalla storia delle belle arti. Alcuni fumettisti dell’epoca furono anche pittori (come Lyonel Feininger, Gus Mager e Gustave Verbeek), e del resto non poche tavole a fumetti giocavano a riprodurre gli effetti cubisti o espressionisti dell’arte contemporanea. Della lezione di Charles Forbell, che non fu pittore e dopo Naughty Pete “mise la testa a posto”, guadagnandosi da vivere come illustratore per periodici come Life e Judge, sorprende però più il gioco della riproduzione, o in altre parole più l’invenzione estemporanea della copia o anche solo dell’influenza. Ciò che rende davvero speciali le tavole di Naughty Pete è insomma il puro linguaggio del fumetto, irriducibile a qualsiasi rapporto con altre arti e sviluppato in un regime di libertà espressiva e in uno stato di grazia che in poche altre opere è possibile ritrovare. La magia ebbe la durata di una stagione, ma in soli tre mesi, come ha scritto Chris Ware, “Charles Forbell giocò coi fumetti più di quanto molti fumettisti fanno in un’intera vita”.