
(Questo racconto di scuola risale al 2023, quando insegnavo in una quinta. Non l’avevo mai pubblicato, data la sua lunghezza. È un testo pensato per essere letto su carta, non su uno schermo, quindi a chiunque volesse leggerlo dall’inizio alla fine consiglio di stamparlo.)
Il Topo e il Bue sono compagni di banco molto affiatati, e oltre a essere gli ultimi due alunni sul registro di classe possono vantare corporature che rispecchiano alla perfezione le scelte della sorte. Per celebrare il nuovo anno del Coniglio abbiamo estratto da un ventaglio di “biglietti della fortuna” gli animali dello zodiaco cinese, e non appena cominciamo a svelare il loro ordine di arrivo al cospetto di Buddha, il piccolo bambino-topo abbraccia calorosamente il grande bambino-bue, perché scopre di essere arrivato per primo grazie all’amico che l’ha trasportato sulla groppa. Compagni di banco sono anche i “fratelli” Drago e Serpente, due alunne che in effetti hanno nomi molto simili, mentre il Maiale è un bambino che di cognome fa Porcù e non mangia carne suina, e chi se non Alice avrebbe potuto (ri)trovare sulla sua strada il Coniglio?
«Per indicare gli anni il Buddha non sapeva proprio da dove cominciare: il mondo è immenso e i nomi infiniti. Pensò alla saggezza degli esseri viventi e degli animali che popolavano la Cina, fu così che decise di radunarli tutti. […] Il viaggio durò giorni e giorni. Giunti quasi a destinazione, il topo, sfinito, chiese al bue di salire sul suo dorso e lui, gentile di natura, acconsentì. Ma appena intravide la casa del Buddha il piccolo saltò giù e, velocissimo, arrivò per primo. Il Buddha lo accolse con gioia e annunciò che avrebbe dato il suo nome al primo anno. […] Subito dopo arrivò il bue diligente, molto contrariato per il comportamento del topo. Buddha gli disse che avrebbe chiamato il secondo anno con il suo nome e lui ne fu così felice da dimenticare del tutto la malefatta del furbo compagno di viaggio. […] Poco dopo giunsero in ordine la tigre, il coniglio, il drago, seguito da suo fratello il serpente, il cavallo, la capra, la scimmia, il gallo, il cane e il fortunato maiale, che arrivò appena in tempo per salutare il Buddha morente.»
Abbiamo letto questa antica leggenda che si tramanda a proposito dello zodiaco cinese sull’albo illustrato Quando gli anni divennero animali di Arianna Papini (Donzelli 2016), e altre brevi storie dall’antica Cina sono state lette alla classe dalle alunne che le hanno trovate sui loro biglietti. Per far sì che ciascuno potesse pescare un messaggio significativo, infatti, ho selezionato oltre ai dodici animali dello zodiaco sei frammenti tratti dallo Zhuang-zi, un testo classico del taoismo (Il tesoro del cielo, Il sogno della farfalla, L’ombra, Il giardiniere, Trasformazione, La gioia dei pesci), e infine tre figure caratteristiche: il simbolo del Tao, l’Imperatore e Ping, protagonisti di un altro albo illustrato che abbiamo letto e commentato insieme, Il vaso vuoto di Demi (Rizzoli 2010), purtroppo reperibile solo nelle biblioteche perché fuori catalogo.
L’anziano imperatore è in cerca del suo successore, e poiché ama i fiori vuole che siano loro a scegliere: distribuisce a tutti i bambini del regno un seme, con la promessa che chi saprà crescere il fiore più bello diventerà imperatore. Ping è un bambino bravissimo a coltivare fiori e piante, ma il seme che ha ricevuto non germoglia. Passano le stagioni, e dopo essersi consultato col padre e con un amico, Ping decide di presentarsi lo stesso al cospetto dell’imperatore col suo vaso vuoto, nonostante tema di essere punito. Tutti gli altri bambini hanno portato dei fiori bellissimi, ma solo quando arriva il turno di Ping l’imperatore sorride: aveva distribuito a tutti dei semi cotti, che non avrebbero mai potuto germogliare, e soltanto Ping gli ha infine restituito il vaso vuoto che il saggio sovrano aspettava di ricevere dal suo successore.
Molti di noi conoscevano già questa storia, che è stata la nostra ultima lettura dello scorso anno scolastico, seduti all’ombra di un platano nei giardini pubblici vicini alla scuola. Allora, dopo alcuni commenti di stupore per il bellissimo finale a sorpresa, avevamo provato a dar forma e colore con gli acquerelli al giardino dell’imperatore, mentre adesso è il momento di approfondire la nostra comprensione, sperimentando l’effetto di una rilettura a distanza di tempo, e soprattutto del dialogo che può nascere da una domanda tanto semplice quanto inesauribile, ispiratami dalle prime osservazioni. Quali sono le virtù di Ping? Quali sono le qualità che l’imperatore riconosce nel bambino?
Le tante mani alzate mi incoraggiano a prestare particolare attenzione alle riflessioni che questa domanda può suscitare. Invito gli alunni a cercare se possibile risposte diverse da quelle dei compagni, e poi a motivarle con le proprie parole e con esempi tratti dalla storia, mentre un’alunna si offre di trascrivere alla lavagna le parole-chiave che abbiamo trovato. Ad affiorare per prime sono le virtù dell’onestà e della lealtà, fondamentali nella risoluzione finale, ma in breve tempo la lista si arricchisce anche di risposte meno immediate, accompagnate da non poche osservazioni sorprendenti, che mettono in relazione diversi personaggi e aspetti della storia.
C’è chi parla della fiducia di Ping in almeno due accezioni: fiducia nell’imperatore, ovvero nei confronti della sua saggezza e abilità di discernimento, e fiducia in sé stesso, nelle proprie qualità. C’è chi riconosce in Ping la virtù della paura, o meglio la capacità di provare questa emozione senza negarla, arrivando così a confrontarsi con essa e infine a governarla. L’intervento per me più emozionante si sofferma sulla fedeltà di Ping al seme, al fiore invisibile che gli era stato affidato, e che il bambino non ha voluto sostituire. Ritroveremo questo pensiero fra qualche mese, quando leggeremo Il piccolo principe, e a fine anno questa frase di Antoine de Saint-Exupéry, trascritta sul retro di un quadernetto, sarà la mia dedica all’alunno che ci ha regalato un’osservazione così importante: «Ecco ciò che mi commuove di più in questo piccolo principe addormentato: è la sua fedeltà a un fiore, è l’immagine di una rosa che risplende in lui come la fiamma di una lampada, anche quando dorme…».
Riprendo in mano la lista di queste virtù qualche settimana più tardi, dopo l’estrazione dei biglietti della fortuna e la lettura della leggenda sugli animali dello zodiaco cinese. Ho radunato tutti i biglietti, e prima di riconsegnarli vorrei associare a ciascuno di essi una virtù specifica, una parola-chiave su cui poter incentrare una successiva attività di rielaborazione artistica. Perché la scelta sia il più significativa possibile, decido di lasciarmi ispirare anche dalle qualità che la tradizione attribuisce ai vari animali dello zodiaco, o che emergono nei frammenti di storie che ho scelto, ma più di ogni altra cosa mi riprometto di non perdere mai di vista il riferimento al bambino che ha pescato il biglietto, e a cui lo stesso biglietto sarà nuovamente destinato.
Nella maggior parte dei casi, in realtà, non devo far altro che ricordare quale virtù ha riconosciuto ciascun alunno in Ping: molte volte si tratta proprio di virtù che corrispondono anche all’animale o al frammento estratto, e soprattutto alla personalità del bambino. Già durante le osservazioni successive alla lettura del Vaso vuoto, in effetti, mi aveva colpito l’impressione che ciascun alunno, parlando di Ping, stesse in realtà parlando anche di sé stesso, pur non essendone consapevole: erano la sintonia con questa o quell’altra virtù a rendere possibile il riconoscimento, a far sì che la scelta ricadesse su una parola particolarmente sentita, nel momento in cui il tempo della lettura e della riflessione avevano sollecitato una profonda esperienza di rispecchiamento attraverso il dialogo.
Alla fine la lista di parole-chiave che avevamo trovato ha avuto bisogno soltanto di un paio di modifiche. Singolare è stato il caso del frammento L’ombra, sicuramente il più inquietante fra quelli proposti. Ho associato subito “Paura” a questa breve storia, ma per rendere più chiaro il significato della virtù ho preferito sostituirle la parola “Sincerità”, pensando che chi è sincero con sé stesso sa accogliere e governare le proprie paure, come suggerisce l’ultima frase del frammento. Ricordo che l’alunna che ha pescato questo biglietto aveva partecipato al dialogo sulla paura di Ping come virtù, e anche se non sono sicuro che sia stata proprio lei a proporre questa parola, mi accorgo in seguito di un’altra curiosa coincidenza: su un biglietto che lei stessa mi aveva regalato dopo la lettura del Vaso vuoto, e di cui nel frattempo mi ero dimenticato, trovo scritto: «La sincerità viene sempre ripagata».
Riconsegnati i biglietti e assegnate le parole-chiave, invito ciascun alunno a trascrivere la sua virtù su un foglietto bianco, accompagnandola con un disegno. C’è chi decide di raffigurare con grande accuratezza l’argine del fiume evocato nel suo frammento (“Gentilezza”, La gioia dei pesci), o l’ambiente naturale del suo animale (“Attenzione”, Scimmia), mentre altri alunni optano per soluzioni più creative. Per rappresentare la “Forza”, un’alunna si ispira all’albo illustrato di Jimmy Liao Segreti nel bosco (Edizioni Gruppo Abele 2021), che ho lasciato a disposizione per la lettura libera nell’intervallo, disegnando al posto della tigre una bambina che cavalca un enorme coniglio rosso. L’alunno che ha pescato il Topo immagina invece il “Coraggio” come dei grandi alberi con radici che si intrecciano sottoterra, e mi ricordano l’abbraccio del bambino-topo e del bambino-bue. Ripenserò con un sorriso a questo disegno quando poche settimane più tardi, durante un colloquio, la madre osserverà che negli ultimi tempi suo figlio le sembra più solido, stabile e sicuro di sé.
Finiti i disegni, raccogliamo tutti i biglietti su un poster che appendiamo sulla porta dell’aula, affinché sia visibile ogni volta che entriamo in classe e per chiunque passi in corridoio. Nell’intervallo alcuni alunni si fermano a osservare i disegni dei compagni e a sfogliare i biglietti per vedere cosa nascondono, un po’ come erano soliti fare qualche mese fa coi disegni ispirati al pittogramma della luna nuova. Un alunno mi spiega perché non ha colorato il suo disegno raffigurante la virtù della “Libertà”, che in Ping avevamo considerato soprattutto come indipendenza di giudizio, capacità di non farsi influenzare dalle opinioni altrui: «Libertà anche di non colorare!» sorride beffardo. Invece del Cavallo ha scelto come soggetto un uccellino che fugge dalla gabbia, un interessante preannuncio della prossima storia che stiamo per leggere.
Leggendo un libro che ha ricevuto dall’imperatore del Giappone, l’imperatore della Cina scopre che nel suo regno c’è una meraviglia di cui non conosceva l’esistenza, un usignolo dal canto prodigioso. L’uccello abita fra i boschi e il mare, molto lontano dalla corte imperiale, ma quando viene portato al castello a cantare per il sovrano, l’imperatore, commosso dal suo canto, ordina di preparargli una gabbia per poterlo avere sempre vicino. Tempo dopo, l’imperatore riceve dal Giappone un pacco contenente un prezioso uccello meccanico, ma quando prova a far cantare assieme i due uccelli, l’usignolo fugge via. L’imperatore lo bandisce dal regno e concede tutti gli onori possibili all’uccello meccanico, che presto, tuttavia, comincia a consumarsi. L’imperatore si ammala, e quando riceve la visita della Morte prega invano l’uccello meccanico di distrarlo col suo canto. All’improvviso sente una melodia meravigliosa vicino alla finestra: l’usignolo è tornato per consolarlo, e col suo canto riesce a far fuggire la Morte. L’imperatore lo prega di fermarsi al castello, ma l’usignolo gli risponde che la sua vita è altrove, e gli promette che verrà a trovarlo ogni volta che ne avrà voglia. Non ha bisogno di onori, perché le lacrime dell’imperatore durante il suo canto sono state per lui il regalo più prezioso. «Io amo il tuo cuore più della tua corona, che pure ha qualcosa di sacro», dice l’usignolo, e l’imperatore ritrova la vita.
Leggiamo questa fiaba di Hans Christian Andersen, L’usignolo, tenendo a mente l’insegnamento di uno degli estratti dal Zhuang-zi, nel quale un anziano giardiniere intuisce i rischi di disporre di una macchina per automatizzare il proprio lavoro. Di fronte all’offerta titanica di una macchina capace di irrigare cento aiuole al giorno, il giardiniere sostiene il valore della propria opera, anteponendo l’amore e la cura per ciò che fa all’efficienza di un lavoro meccanizzato, che in breve tempo comporterebbe anche una meccanizzazione del suo spirito. Tra le virtù di Ping, l’unica che mi sono sentito di suggerire è stata “Perseveranza”, lasciando però che gli alunni la indovinassero da alcuni indizi, poiché immaginavo che molti di loro non ne conoscessero il significato. L’alunna che ha indovinato la parola avrebbe poi trovato sul suo biglietto la storia del vecchio giardiniere, alla quale mi è parso più che giusto associarla.
Nella fiaba di Andersen, il confronto fra le due figure dell’usignolo e dell’uccello meccanico riflette la contrapposizione fra natura e artificio: lo spirito vitale è rappresentato anzitutto dal meraviglioso canto dell’usignolo e dall’emozione che suscita nell’imperatore, mentre il suo surrogato artificiale è una scelta seducente che finisce per meccanizzare lo spirito del sovrano, portandolo quasi alla morte. L’uccello meccanico ha il vantaggio di poter effettuare a comando il suo canto, almeno finché non si rompe, e di non fuggire mai; ma si tratta pur sempre di un canto registrato che si ripete sempre uguale e non porta alla commozione, bensì all’assuefazione, e di una fedeltà illusoria, che è in realtà l’immobilità dell’oggetto inanimato. Incomparabilmente più preziose sono la vita dell’usignolo, il dono del suo canto impossibile da programmare e la libertà del suo volo, che gli consente di visitare l’imperatore nonostante egli l’abbia bandito dal suo regno.
Quando presento in classe questo tema, invito gli alunni a considerare le due figure non come entità astratte, ma come simboli che parlano di situazioni concrete rintracciabili nella storia, un po’ come avevamo fatto per riflettere sulle virtù di Ping. A colpire gli alunni è in primo luogo l’aspetto di queste due figure, che non potrebbe essere più dissimile: il piumaggio grigiastro dell’usignolo è talmente modesto che i cortigiani lo reputano volgare («Ha certamente perduto tutto i suoi colori nel vedersi intorno tante persone distinte!» esclama l’aiutante del cappellano di corte), mentre l’uccello meccanico è un giocattolo d’oro e d’argento costellato di diamanti, rubini e zaffiri, che attira subito gli sguardi di persone evidentemente abituate a dare molta importanza alle apparenze.
Il discorso sulle apparenze ci aiuta ad ampliare la prospettiva, esaminando il modo in cui è descritta la vita nella corte imperiale. Osserviamo che quasi ogni aspetto di questa vita è regolato da norme, ritualità e formalità spesso eccessive, come gli altisonanti titoli di merito elargiti dall’imperatore, e in particolare che le relazioni tra il sovrano e i suoi sudditi sono fondate sull’adulazione e sulla paura. I sudditi fanno a gara per compiacere i loro superiori nella gerarchia del potere, mentre l’imperatore ottiene la loro obbedienza con la minaccia di punizioni. Il passaggio che racconta l’insediamento a corte dell’uccello meccanico descrive molto bene un contesto in cui gli stessi rapporti umani sono meccanizzati, ma la sottile ironia di Andersen non manca di porre l’accento sul cuore dell’imperatore, simbolo di nobiltà e distinzione le cui radici affondano nel riconoscimento di un’umanità che aspetta di essere riscoperta.
«L’uccello meccanico ebbe l’onore di stare su un cuscino di seta vicino al letto dell’imperatore, con tutti i doni che gli avevano dato, oro e pietre preziose, sparsi intorno, e aveva raggiunto l’ambito titolo di “imperial cantore del capezzale”; nel protocollo poi, il suo posto era il primo a sinistra, siccome l’imperatore stimava più nobile quella parte dov’era il cuore; perché anche gli imperatori hanno il cuore a sinistra. Il musico di corte scrisse ben venticinque volumi sull’uccello meccanico, tutti pieni di erudizione e lunghissimi, zeppi di difficilissime parole cinesi, e tutti dichiaravano di averli letti e capiti, per paura di far la figura di stupidi e di esser battuti sulla pancia.»
Esaminiamo le scene della fiaba che ci sembrano più interessanti, le rievochiamo a turno nel nostro dialogo, e quando è necessario ne rileggiamo alcuni estratti. Ci incuriosisce in particolare la circostanza che l’uccello meccanico è un dono dell’imperatore del Giappone, accompagnato da un enigmatico messaggio: «L’usignolo dell’imperatore del Giappone è misero in confronto a quello dell’imperatore della Cina». Questo messaggio non suona forse come una strana lusinga, simile alle adulazioni che i cortigiani rivolgono all’imperatore? Accenno al fatto che nel corso dei secoli i rapporti fra Cina e Giappone non sono sempre stati amichevoli, cosa che fa subito venire in mente a un alunno la costruzione della grande muraglia: se pensiamo a come prosegue la storia, allora, possiamo vedere il regalo da un altro punto di vista. Sto pensando che l’uccello meccanico può essere interpretato come un’arma, escogitata per sedurre e imbambolare l’imperatore rivale, ma un alunno trova subito una parola ancora più appropriata: «trappola!». A questo punto la classe si divide fra chi crede alle cattive intenzioni dell’imperatore del Giappone, e chi invece riconosce nel suo gesto solo il desiderio sincero di un dono. Eppure è anche possibile mettere insieme le due ipotesi, come nota giustamente un’alunna: forse l’imperatore era davvero sincero e benintenzionato, e il suo regalo è diventato una trappola senza che lui lo volesse.
Ci capita più volte, durante queste letture cinesi, di sfiorare pensieri che dissolvono le false dicotomie in una comprensione più profonda, come l’armonia degli opposti che si abbracciano nel simbolo del Tao. Anche il conflitto fra natura e artificio, nel dialogo finale tra l’usignolo e l’imperatore, svela una simile possibilità nel momento in cui scopriamo che non si tratta necessariamente di scegliere una cosa a discapito dell’altra, bensì di riconoscere e raggiungere il giusto equilibrio. L’imperatore è esortato a non distruggere l’uccello meccanico, ma a tenerlo con sé, e soprattutto ad accogliere la libertà dell’usignolo nel suo ambiente naturale come il presupposto essenziale del suo canto prodigioso.
«– Dovrai restar sempre con me! – gli disse l’imperatore. – Canterai solo quando ne avrai voglia, e romperò in mille pezzi l’uccello meccanico.
– Non farlo! – lo pregò l’usignolo. – Ha dato tutto quello che poteva! Tienlo con te, come prima! Io non posso stabilirmi al castello, ma permettimi di venire quando ne ho voglia, e allora la sera mi poserò su quel ramo, vicino alla finestra, e canterò per te, per colmarti di felicità e per farti pensare: canterò di quelli che sono felici e di quelli che soffrono, canterò del bene e del male che è intorno a te e che ti è tenuto nascosto.»
A casa ripenso alle osservazioni nate dal dialogo sulla fiaba, in particolare alla battuta di un alunno che sul momento non avevo capito, sia per la foga con cui si era espresso, senza rispettare il turno di parola, sia perché in quel frangente concitato avevo ritenuto più opportuno riportare la calma, interpretando quell’intervento come un semplice atto di disturbo. In risposta a un mio invito a mostrarsi più presenti, ad esempio guardando in faccia chi sta parlando, l’alunno era intervenuto dicendo che allora chiedevo loro di fare sempre sì con la testa, proprio come i cinesi. Riflettendoci sopra a distanza di qualche ora, mi rendo conto che la battuta contiene un prezioso collegamento tra il senso della storia e la nostra esperienza di scuola. È un’occasione perfetta per riordinare le idee, mettendo per iscritto le varie suggestioni rimaste in sospeso, e per organizzare un discorso coerente che permetta a tutti gli alunni di comprendere le numerose sfaccettature di questa storia, molto più complessa e densa di significato di quanto possano far pensare l’evoluzione lineare e una piatta interpretazione didascalica della vicenda principale.
È la prima volta che mi trovo a leggere in classe un discorso scritto da me, la prima volta che la mia passione per l’analisi dei testi letterari si lega in modo così stretto ed esplicito a un’attività scolastica. Intitolo il discorso Il cuore dell’imperatore, e riallacciandomi alla battuta osservo subito che la fiaba parla anche di noi: ogni personaggio ci dice qualcosa, se gli prestiamo attenzione. Anche maestri e alunni possono infatti comportarsi in modo meccanico, quando la vita scolastica soccombe a formalità artificiali, ma è anche possibile che dal dialogo nasca qualcosa di simile al canto dell’usignolo. Ricordo che durante la mia prima lezione in questa classe, lo scorso anno, un’alunna aveva parlato del silenzio come di qualcosa che ci permette di ascoltare i suoni della natura, ovvero di sentire più a fondo ciò che siamo e il mondo che abitiamo. Così profondo è l’ascolto che porta l’imperatore alla commozione quando sente il canto dell’usignolo, e che gli consente infine di guarire, liberandosi dalla trappola in cui era caduto e dal suo isolamento nel castello.
Mi soffermo in particolare sull’idea che la nobiltà dell’imperatore risiede nel suo cuore, prima che nella corona. L’usignolo torna a trovarlo proprio perché ha riconosciuto in lui questa nobiltà, che lo rende più saggio dei suoi cortigiani. E l’imperatore guarisce non solo grazie al canto dell’usignolo, ma anche perché ha aperto il suo cuore a un ascolto profondo, senza il quale non avrebbe potuto apprezzare davvero la meraviglia del canto. Osservo che la sua saggezza ha origine nella sua sensibilità, una dote che riconosco bene nei miei alunni, e in generale è molto più comune nei bambini che negli adulti. Penso alla sensibilità come a un fiore che sboccia di prima mattina, all’alba della vita, e per non appassire ha bisogno di essere coltivato nel tempo con grande cura.
Un paio di mesi più tardi, approfittiamo del Pigiama Day organizzato su iniziativa di una collega per riannodare alcuni fili del nostro discorso. Da diverse settimane ci siamo ormai lasciati alle spalle le letture di antiche storie cinesi per affrontare Il piccolo principe, ma questa mattinata di festa così diversa dal solito, in cui siamo venuti a scuola vestiti in pigiama, è propizia per approfondire le nostre riflessioni sulla base di un’esperienza più concreta. Ora l’invito è a soffermarsi su una sensazione che ognuno di noi ha provato dopo essersi tolto le scarpe e averle deposte lungo una parete, restando in classe con solo un paio di calze ai piedi. Parliamo di quiete e di calma, dell’impressione che l’aula sia avvolta in un silenzio ovattato e della diversa percezione di tutto ciò che ci circonda. Toccando il suolo senza scarpe ci sentiamo più fragili e vulnerabili, e di conseguenza più attenti nei confronti degli altri. Ricordo agli alunni le mie visite alle scuole in Giappone, dove stare in classe senza scarpe è la prassi comune, e osservo quanto a mio parere questa consuetudine abbia un’influenza determinante sullo sviluppo dei rapporti interpersonali. Se la gentilezza e il rispetto reciproco sembrano connaturati all’animo giapponese, forse è perché la scuola, la famiglia e la società incoraggiano a coltivare la propria sensibilità come una preziosa forma di saggezza che riguarda sia il sé, sia il rapporto con l’altro.
È il momento giusto per presentare due apologhi che avevo tenuto da parte, anch’essi associati a due virtù specifiche: la favola zen L’uccello a due teste (Comprensione) e l’aneddoto tibetano Il disegno del cielo (Consapevolezza). Incuriosite da queste due storie bonus con cui diamo seguito in modo inatteso alle nostre letture dall’antica Cina, ampliando però l’orizzonte dal taoismo alle tradizioni buddhiste, due alunne si offrono volontarie per leggerle ad alta voce.
L’uccello a due teste
C’era una volta un uccello con due teste e un corpo: la testa di destra era vorace e abilissima nella ricerca del cibo, mentre quella di sinistra, altrettanto ghiotta, era maldestra. La testa di destra riusciva sempre a nutrirsi a sazietà, mentre quella di sinistra era incessantemente tormentata dalla fame.
E così un giorno la testa sinistra disse alla destra: «Conosco, qui vicino, un’erba squisita di cui ti delizieresti: vieni, ti conduco dove cresce».
In realtà sapeva che quell’erba era velenosa, ma voleva con questo stratagemma uccidere l’altra testa, per poter poi mangiare a piacimento.
E la testa di destra mangiò l’erba, e il veleno uccise l’uccello dalle due teste.
Il disegno del cielo
Un Maestro tibetano disegnò un giorno per i suoi studenti, sul bianco di una lavagna, il segno stilizzato di un piccolo uccello e chiese: «Cos’è?». Nacquero tante diverse risposte. Tutte decifravano il piccolo segno. In molti risposero: «Un uccello». E il Maestro, continuando a scuotere sorridendo la testa, rispose: «È un cielo vasto e in questo momento sta passando un uccello».
Le due storie diffondono stupore nel silenzio ovattato, dal quale presto lievitano le domande. «Ma l’uccello a due teste aveva uno stomaco oppure due?» chiede un’alunna stranita. Preso alla sprovvista rispondo che aveva un solo corpo, dunque credo anche un unico stomaco, e allora l’alunna domanda come sia possibile che la testa di sinistra avesse sempre fame: anche quando mangiava l’altra testa, infatti, condividendo lo stesso stomaco avrebbe dovuto sentirsi sazia! Si alza in piedi e raggiunge il centro dell’aula, dove assieme a un’amica prova a impersonare lo strano uccello (che nel nostro caso è un prodigioso ibrido Drago-Coniglio!). Confidando nella bontà della mia intuizione, propongo di considerare quanto entrambe le teste avessero dimenticato il proprio corpo, ovvero ne fossero distaccate, e dunque fossero abituate a ragionare per conto loro non solo nel momento della vendetta e del suicidio (come giustamente un alunno ha chiamato la morte dell’uccello), ma anche in precedenza. Talmente concentrate su rivalità e gelosie, le due teste non potevano sentire davvero fame o sazietà, perché non erano più in grado di percepire il loro legame col corpo, vale a dire con tutto ciò che le univa e le metteva in relazione col mondo. Ciò che scambiavano per fame e sazietà, probabilmente, erano solo riflessi dei loro pensieri. La loro ignoranza, in altre parole, derivava da un’acuta forma di insensibilità.
Un’alunna rivela sorridendo che il Maestro della seconda storia, quando sorride scuotendo leggermente la testa, le ha ricordato me. Un’altra alunna corre alla lavagna, la cancella e poi disegna al centro il segno stilizzato dell’uccello. Comprendiamo senza difficoltà ciò che la storia ci sta dicendo: è importante non fermarsi alla prima impressione, guardare ogni cosa più a fondo, e chi si concentra troppo sui dettagli deve fare attenzione a non perdere di vista l’insieme. Le due teste dell’uccello a due teste, concentrate sulla propria rivalità, avevano dimenticato il proprio corpo, e allo stesso modo qualsiasi persona troppo concentrata su sé stessa, intenta a inseguire un pensiero o un’immagine, rischia di perdere di vista il mondo. Gli alunni non mancano di notare una profonda sintonia fra le due storie, al di là della presenza di uccelli in entrambe, e inoltre osservano che il titolo di quest’ultima richiama quello del primo estratto cinese che avevamo pescato dai bigliettini, Il tesoro del cielo, che consisteva in un’unica frase sulla somma saggezza di chi sa che ci sono cose che non si possono conoscere. Se il segno dell’uccellino rappresenta l’imperfezione del nostro sguardo, i limiti della nostra conoscenza, lasciamo spazio al cielo nel vuoto della lavagna per far nostro il senso di una verità molto più vasta, che a volte ci sembra di intravedere nel mistero e nella meraviglia.
Prima di entrare in classe al suono della campanella, sulla porta ancora chiusa aggiungo al poster i biglietti di queste due storie. I disegni ispirati alle nostre letture sono ormai numerosi: sfilano lungo le pareti del corridoio, da entrambi i lati, e decorano quasi tutti gli spazi disponibili sulle pareti dell’aula. Usignoli, uccelli fantastici, imperatori e bambini, composizioni di fiori e foglie… Ci sono i conigli di Shaun Tan e di Tom Seidmann-Freud, sparsi qua e là per celebrare l’animale a cui abbiamo associato la virtù dell’Amore, e alcune fotocopie colorate della magnifica edizione dell’Usignolo illustrata da Bagram Ibatoulline (L’usignolo dell’imperatore della Cina, Emme Edizioni 2002), che ho lasciato in classe da sfogliare dopo aver letto la fiaba su un volume Einaudi senza immagini.
Ci sono anche i pappagalli ispirati a una triste favola di Rabindranath Tagore, che abbiamo interpretato come il rovescio della storia di Andersen: un sovrano stolto si ostina a tenere in gabbia un uccello allo scopo di istruirlo in modo violento e artificioso, finché l’animale non muore. Non solo il re non si accorge del male che ha fatto a causa della sua ignoranza, ma è convinto di avere agito per il bene e di aver portato a termine il suo compito. L’ultima frase del racconto, in ogni caso, è un invito silenzioso, simile al gesto con cui il Maestro tibetano, dopo aver disegnato un uccello, ricorda la vastità del cielo: «Fuori, nella brezza della nuova primavera, le giovani foglie della foresta fiorita riempivano il cielo, stormendo, di lunghi sospiri».
I nostri pappagalli non sono prigionieri, ma un alunno – lo stesso a cui avevo affidato la virtù della Libertà – ha disegnato attorno al suo usignolo una splendida gabbia dorata. La maggior parte di questi disegni sono stampe di incisioni artigianali, che ho creato a casa con la tecnica della linografia, e fotocopie tratte dai libri che abbiamo letto insieme. Le lascio sulla cattedra durante l’intervallo, aspettando che gli alunni le prendano liberamente per colorarle nei ritagli di tempo. Quelle colorate a metà spuntano a volte dal sottobanco, o fra le pagine dei quaderni da correggere. Quelle finite tornano a raccogliersi sulla cattedra, e una volta a casa le incollo su cartoncini e fogli colorati, cercando di abbinarle in base al soggetto e alle tonalità cromatiche. Una volta appesi, questi ritagli di tempo incorniciati sono figure preziose che abbelliscono l’aula e valorizzano il tempo delle nostre letture, un giardino di fiori e animali che rende in ogni momento possibile tornare a incamminarsi lungo i sentieri delle antiche storie.
Arriva infine il momento di restituire ogni cosa, disperdendo ciò che abbiamo raccolto in questi mesi come semi da affidare al ricordo, in attesa di una nuova fioritura. Il poster coi biglietti dell’anno del Coniglio è l’ultima decorazione da cui ci separiamo, insieme al planisfero che abbiamo disegnato in piccoli gruppi all’inizio dell’anno e a un altro planisfero trovato sulle pagine di un giornale, circondato dai volti e dalle biografie degli autori che in questi due anni ci hanno accompagnato nei nostri viaggi letterari. Per distribuire i miei disegni e altro materiale che ho creato nel corso dell’anno, invece, confido ancora una volta nella saggezza della dea bendata, chiedendo a ciascun alunno di pescare una carta del Mercante in fiera: i primi che chiamo attingendo dal mio mazzo hanno una scelta più ampia, mentre gli ultimi possono ambire a un piccolo regalo extra, e soprattutto al primo premio, una copia dell’edizione inglese del Vaso vuoto (The Empty Pot) di Demi. Subito il gioco del caso premia la nostra fiducia, rivelandosi tutt’altro che cieco per chi sa scorgere le sue trame. L’alunna che all’epoca pescò la storia Il sogno della farfalla viene ora chiamata per prima con la carta Farfalla (animale che compare anche nella dedica che le ho preparato, tratta dal finale dell’albo illustrato Il viaggio sul pesce di Tom Seidmann-Freud). E il Vaso vuoto? Finirà a casa dell’alunno che ha pescato la carta dei Fiori.