24/01/23

La luna è una barca


Ho passato un difficile inizio di anno scolastico, impigliato nell’altalena di dubbi, speranze e delusioni che molti insegnanti precari conoscono fin troppo bene. Prima l’attesa sfiancante e la preoccupazione di perdere la mia classe, poi la conferma tanto desiderata, poi l’improvvisa smentita, quindi le complicate trattative per conservare almeno in parte la continuità su alcune materie (o meglio, la relazione con gli alunni con cui lo scorso anno ho condiviso un viaggio ricchissimo di scoperte, uscite e progetti).

Sono stati giorni illuminati quasi esclusivamente dal sorriso dei miei alunni. Giorni di confusione risanata dalla bellezza dei volti dei bambini, finalmente liberi dall’obbligo di indossare la mascherina a scuola. Giorni di domande e riflessioni, ad esempio a proposito della distanza che anche a prescindere dalle mascherine, tra colleghi, sembra essersi insinuata ancora più a fondo nei rapporti interpersonali, sempre più mediati dal caos delle chat su Whatsapp, dalla pioggia di comunicazioni sul registro elettronico e sull’email, dalla burocrazia dei fogli Excel, dalla corsa contro il tempo per compilare tabelle orarie su Google Drive, prima che la casella desiderata per l’attività in questione venga occupata. In che misura le incomprensioni si moltiplicano nel comfort di dispositivi che ci dispensano dall’incontro con l’altro? In che misura questa limitazione al confronto diretto in nome dell’efficienza e della rapidità ci sta disabituando alle nostre reciproche responsabilità?

Certi giorni mi sono sentito su una barca in mezzo alla tempesta, solo e in balia di forze incontrollabili. Penso in particolare allo scadente dibattito pubblico sulla scuola, monopolizzato da parole e slogan che non rispecchiano in alcun modo l’esperienza di chi la scuola la vive ogni giorno. Durante la recente campagna elettorale, in merito alle misure del PNRR dedicate alla creazione di una “Scuola 4.0”, Enrico Letta ha affermato che «i ragazzi nostri», oggi, sperimentano una situazione paradossale: la mattina tornano nel Novecento nelle aule di una scuola che è ancora quella dei tempi passati, e il pomeriggio, a casa, vivono nel XXI secolo grazie ai loro strumenti tecnologici. Vorrei soffermarmi sul potere e sulla menzogna di queste parole che dividono e strumentalizzano anche nel momento in cui paiono rivolgersi a un progetto comune, perché credo che questo potere e questa menzogna (che non hanno bandiere politiche, ma influenze trasversali) siano responsabili di un senso di frustrazione condiviso da molti insegnanti e studenti.

Oltre alla necessaria considerazione per cui la scuola novecentesca è anzitutto la scuola pubblica, democratica, sancita e tutelata dalla Costituzione, e non un relitto da smantellare in blocco a colpi di riforme che in modo sempre più scoperto mirano a trasformarla in una grande azienda asservita al mercato e alle logiche competitive del mondo del lavoro, credo sia interessante seguire le implicazioni che questo discorso suggerisce riguardo all’opposizione scuola/casa. A mio parere, la casa come ambiente smart è il modello di un rinnovamento della scuola basato essenzialmente sulla privatizzazione e la soddisfazione di interessi particolari (fondazioni, imprese, multinazionali della tecnologia), che solo in forma mistificatoria può pretendere di appellarsi al bene comune. Un modello che considera come perno dell’istruzione non più la relazione educativa tra insegnante e alunni (già appiattita sul modello di un rapporto fra privati, come nota Daniele Lo Vetere, «uno dei quali deve sedurre l’altro con la propria mercanzia e il secondo dei quali valuta se sia di suo gradimento o meno»), ma piuttosto l’intrattenimento, l’engagement individuale dello studente-utente.

Durante i periodi di lockdown e di restrizioni pandemiche, la didattica a distanza e la didattica digitale integrata hanno fornito alla nostra società l’occasione per testare questa anomala confusione tra ambienti. Oggi, uno strumento che si è rivelato utile in situazioni di emergenza, ma di cui chiunque ha potuto constatare l’inadeguatezza, rischia di consolidarsi assieme all’idea che “indietro non si torna” (una variante del più esplicito “there is no alternative”). Nel prossimo futuro, se questa visione di scuola si imporrà in modo definitivo, avremo verosimilmente lezioni a domicilio, sul metaverso e on demand laddove un tempo sorgevano scuole in presenza, novecentesche, ma a mascherare la nostra ipocrisia saranno le mirabolanti scuole 4.0 dei “nostri figli”. Nella città in cui abito e insegno, Milano, i presupposti di questa prospettiva discriminatoria si stanno effettivamente concretizzando: come mostra l’inchiesta di Maria Elena Scandaliato (Questione di classe: La segregazione scolastica a Milano e La fuga dalle scuole multietniche), abbiamo scuole pubbliche sempre più fatiscenti e prive di risorse, mentre le scuole private internazionali frequentate dai figli dell’élite sono inondate dai finanziamenti (e così spesso pubblicizzate come avanguardie delle magnifiche sorti e progressive dell’istruzione).


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