26/01/18

Robot e tecnocrazia. Appunti sull’animazione di una volta


Un’illustrazione di Winsor McCay apparsa il 2 aprile del 1933 sul San Francisco Examiner rappresenta un mostruoso dinosauro meccanico a spasso nel quartiere industriale di una città, mentre calpesta e distrugge tutto ciò che gli capita sul cammino. La scritta “Technocracy” sul corpo della bestia è un chiaro rimando all’omonimo movimento sociale che da qualche mese stava raccogliendo consensi negli Stati Uniti, proponendo di superare la crisi economica attraverso la sostituzione dei politici con scienziati e ingegneri ritenuti in grado di risollevare le sorti del paese.

Diversi cartoni animati, in quello stesso periodo, si sbizzarrirono nel mettere in scena la proposta tecnocratica nelle sue più paradossali implicazioni. Ridotta all’osso, la formula narrativa tipicamente impiegata consiste in una sequenza di tre momenti, nella quale a una situazione di partenza problematica segue la promessa e il tentativo di una soluzione tecnica mediante l’aiuto di un automa e/o di apposite macchine, e infine la rivelazione conclusiva per cui ogni espediente di questo genere è destinato a un clamoroso fallimento. In Techno-Cracked, un corto di Ub Iwerks uscito l’8 maggio 1933, Flip the Frog decide di costruire un robot che tagli al suo posto l’erba del giardino, ma se ne deve sbarazzare con la dinamite dopo che quest’ultimo gli ha messo a ferro e fuoco l’intera casa. Un’analoga avventura di Scrappy diretta da Dick Huemer, Technoracket, venne distribuita appena dodici giorni più tardi: proprietario di una fattoria, per incrementare la produzione Scrappy sostituisce i suoi animali con delle copie meccaniche e assolda un gruppo di robot per compiere tutti i lavori, ma quando i robot cominciano a impazzire e a provocare danni a qualsiasi cosa è costretto dall’esasperazione a distruggerli.

Winsor McCay, Technocracy (San Francisco Examiner, 2 Aprile 1933)

Due fotogrammi tratti da Techno-Cracked (1933) e Technoracket (1933).

Il copione si ripete invariato anche in altri cortometraggi, compresi quelli in cui è assente o meno esplicita la questione sociale dei rischi derivanti dall’impiego di nuove tecnologie, a cominciare dallo spettro di una crescente disoccupazione. Così, il robot che Mickey Mouse fabbrica per sconfiggere un gorilla in un incontro di pugilato si autodistrugge mentre sta esultando per la vittoria (Mickey’s Mechanical Man, 17 giugno 1933), e il robot costruito da Bosko per svolgere i lavori domestici esplode dopo aver ingoiato la dinamite lanciatagli dal suo padrone (Bosko’s Mechanical Man, 27 settembre 1933).

La stessa sorte, del resto, era toccata l’anno prima al buffo automa rudimentale comparso in un corto dell’Oswald the Lucky Rabbit di Walter Lantz, Mechanical Man (1932) – costruito da uno scienziato pazzo deciso a trapiantargli un cuore umano per ottenere la sua obbedienza, il robot finisce incornato da una capra e ridotto in mille pezzi –, e prima ancora a quello ricevuto per posta da Farmer Al Falfa in un cartone dello studio Van Beuren, The Iron Man (1930) – dove però all’esplosione segue un riassemblaggio automatico. L’eccezione che conferma la regola, in questo caso, è un surreale cortometraggio prodotto dallo studio Fleischer, The Robot (1932), dove l’automa in cui Bimbo trasforma la sua automobile (e che alla fine riprende però le sue fattezze originarie) riesce a vincere un incontro di pugilato che permette al padrone di ottenere la mano della sua fidanzata.

Mickey’s Mechanical Man (1933); Bosko’s Mechanical Man (1933); The Iron Man (1930).

Nessuno di questi cartoni animati, nel porre in conflitto le abitudini di una vita quotidiana tipicamente rurale, caratterizzata dal lavoro a contatto con la natura e con gli animali, e il pericolo di una vita meccanizzata, sfugge a una logica di semplificazione funzionale in prima battuta all’efficacia del discorso comico, ma comunque indicativa a suo modo di quello che si potrebbe definire un immaginario condiviso. Se è vero che le star antropomorfe di questi cartoni, che si chiamino Mickey, Oswald o Scrappy, riflettono ed esaltano nelle loro avventure l’indole del piccolo uomo comune, non stupisce allora che la figura del robot sia stata chiamata a fornire un preciso contrappunto drammatico, divenendo una sorta di grande spauracchio sacrificale pronto ad esplodere per il piacere del pubblico, la cui minaccia è peraltro temperata da una clamorosa goffaggine (si pensi a quanto il suo aspetto, anche prima della disgregazione, somigli il più delle volte a un ammasso incongruente di rottami).

“Se ci rendiamo conto di quali pericolose tensioni abbia generato la meccanizzazione con le sue implicazioni nelle grandi masse […]”, osserva Benjamin in una sezione intitolata a Mickey Mouse nella seconda stesura (1935-36) de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, “riconosceremo che questa stessa meccanizzazione ha anche creato la possibilità di un’immunizzazione psichica contro tali psicosi di massa mediante certi film, in cui uno sviluppo forzato di fantasie sadiche o di deliri masochistici può impedirne la maturazione naturale e pericolosa nelle masse”. In molti di questi cartoni animati, in effetti, la “risata collettiva” che rappresenterebbe “l’esplosione prematura e curativa di tali psicosi di massa” muove in un primo momento dalla messa in scena di una fantasia masochistica (l’uomo comune in balia della minaccia robotica), per poi approdare nell’epilogo alla sua controparte sadica (la distruzione del robot).

Techno-Cracked (1933)

Il tempo della risata liberatoria (e della violenza) corrisponde in questo senso al terzo e ultimo momento nella sequenza narrativa citata sopra, dove a precederlo è il tempo della promessa e dell’improvvisa fascinazione. Accantonando per un attimo il discorso sul comico, infatti, è facile constatare come in questi cartoni la figura del robot rechi in sé il medesimo tipo di ambivalenza – oscillante tra i poli della meraviglia e dello straniamento – che già agli albori del cinema accompagnava analoghe figure di automi e marionette, da Georges Méliès (Gugusse et l’Automate, 1897; Coppélia ou la poupée animée, 1900) a James Stuart Blackton (The Mechanical Statue and the Ingenious Servant, 1907). Il cinema di animazione ha però fatto proprio anche un altro genere di meraviglia, fondato sulla rappresentazione di tecnologie non più (o non soltanto) poste in conflitto col mondo naturale, ma ad esso completamente integrate come elementi di un’inedita commistione proteiforme.

Sempre Benjamin, ragionando in Esperienza e povertà (1933) sul tipo di esistenza propria di Mickey Mouse (ma il discorso potrebbe essere esteso più o meno a tutte le star della produzione animata dell’epoca), osserva che “è piena di meraviglie, che non solo superano quelle della tecnologia, ma si prendono pure gioco di esse. Poiché […] tutte insieme scaturiscono senza macchinari, in modo improvvisato, dal corpo di Mickey Mouse, da quello dei suoi sostenitori e persecutori, dai più banali pezzi d’arredamento come anche da un albero, dalle nuvole o dal mare. Natura e comfort, primitività e tecnologia sono qui diventati una cosa sola; e davanti agli occhi della gente […] appare redentrice un’esistenza […] in cui un’automobile non pesa più di un cappello di paglia”.

Questo genere di meraviglia, fondato sull’epifania di una nuova unione tra natura e tecnologia, si origina in maniera più spontanea e pervasiva come tratto stilistico e figurativo in storie che non affrontano direttamente il tema dell’automazione, ma può essere rintracciato anche in alcuni corti che proprio a partire da questa tematica paiono offrirne una specifica trasposizione narrativa implicita. Esempi notevoli della prima situazione, oltre a quelli generici richiamati da Benjamin, sono gli animali meccanici che in molti cortometraggi assumono il ruolo di fedeli e versatili compagni dei protagonisti, come la mucca di Oswald the Lucky Rabbit che in The Mechanical Cow (1927) è mostrata mentre dorme in un letto nella stessa camera del padrone (un lettino più piccolo è riservato poi alla sveglia). Per quanto riguarda invece la seconda situazione, che dire del bizzarro robot del già citato Techno-Cracked, che ha una testa a forma di zucca, mangia e prova addirittura il bisogno di andare in bagno?

The Mechanical Cow (1927); The Mechanical Cow (1937).

Porky’s Poppa (1938)

Un esempio ulteriore può essere tratto da Porky’s Poppa (1938), uno dei primissimi cartoni (il quinto, per la precisione) diretti da Bob Clampett per la celebre serie “Looney Tunes” prodotta da Warner Bros. L’ennesima variante sul motivo “natura vs. tecnologia” muove qui dalle medesime premesse narrative dei corti citati in precedenza, salvo che al posto di un robot umanoide la minaccia dell’automazione è incarnata da una mucca meccanica non troppo dissimile da quella di Oswald the Lucky Rabbit. Il tema era già stato affrontato tra gli altri in un cartone dello studio Terrytoons (The Mechanical Cow, 1937) che si concludeva in modo bizzarro: convinti di essersi sbarazzati della mucca meccanica appena investita da un treno, Farmer Al Falfa e la sua mucca “naturale” la vedono ricomporsi in una sorta di ibrido mucca-treno che li insegue a folle velocità sulle rotaie di una ferrovia. Ora, mentre in questo caso la mutazione riguarda due oggetti meccanici, nel finale di Porky’s Poppa un’immagine analoga sancisce l’unione tra natura e tecnologia. Dopo aver tentato inutilmente, assieme all’amata mucca Bessie, di tenere testa alla mucca meccanica comprata dal padre per sostituire l’anziano animale, Porky Pig osserva le due mucche correre verso la miracolosa “erba del latte” (milk weed), scontrarsi e poi diventare una sola creatura: sia lui che suo padre, vedendo la corazza metallica emergere sopra un cumulo di bottiglie di latte, pensano che Bessie abbia avuto la peggio, ma il colpo di scena finale mostra la testa di quest’ultima fuoriuscire dal corpo della sua copia meccanica, o in altre parole la loro ibridazione.

In un altro corto diretto da Frank Tashlin, Porky’s Railroad (1937), Porky è il macchinista di una vecchia locomotiva che rischia di perdere il lavoro con l’arrivo di un modello di treno ben più moderno. Così come in Porky’s Poppa il conflitto è ricomposto nell’epilogo, che presenta il protagonista alla guida della nuova vettura. Il relitto ridotto in mille pezzi e trasportato sull’ultimo vagone che compare nell’immagine finale, questa volta, non è quello di un robot impazzito, bensì ciò che rimane di una tecnologia ormai superata.

Porky’s Railroad (1937)


Bibliografia e consigli di lettura
Le citazioni di Walter Benjamin si leggono in W. Benjamin, Mickey Mouse, a cura di C. Salzani, Genova, il Melangolo, 2014. Alcune osservazioni su una serie di motivi di stampo fantascientifico negli antichi cartoni animati si trovano su un volume di freschissima pubblicazione: J. P. Telotte, Animating the Science Fiction Imagination, Oxford University Press, 2017. Sul tema della rappresentazione dei robot si può leggere anche J. P. Telotte, Robot Ecology and the Science Fiction Film, New York, Routledge, 2016. Una monografia dello stesso autore indaga la storia e l’identità disneyana nelle sue numerose relazioni con la tecnologia: J. P. Telotte, The Mouse Machine. Disney and Technology, Urbana, University of Illinois Press, 2008. Uno studio imprescindibile sul rapporto tra tecnologia e comicità, che contiene un capitolo specificamente dedicato ai cartoni animati, è quello di Michael North: Machine-Age Comedy, Oxford, Oxford University Press, 2009.