20/02/20

Il risveglio del robot. «Io sono Shingo» di Kazuo Umezu


[L’articolo è stato originariamente pubblicato su Fumettologica il 6/2/2020.]

Il primo amore di Atom, il robot bambino noto in Occidente come Astro Boy, è una bambina robot a lui molto simile, ma che è stata costruita per contenere all’interno del suo corpo una bomba. La loro storia è raccontata nell’ultima puntata della seconda serie animata (Astro’s First Love, 1981), e termina con un epilogo non altrettanto sconvolgente di quello della prima serie (dove Atom sacrificava la vita volando verso la superficie incandescente del Sole), ma più malinconico. Dopo aver assistito agli ultimi momenti di vita di Niki, smantellata per disinnescare la bomba, Atom è consapevole che non sarà in alcun modo possibile ricostruirla, e chiede allora a Ochanomizu di effettuare una curiosa operazione per tenere in vita ciò che è rimasto della bambina, ovvero le sue gambe, innestandole nel proprio corpo al posto di quelle originarie.

Astro’s First Love (1981)

Al di là di questo atto di amore mediante incorporazione e di altri casi estremi, l’immagine del corpo robotico disassemblato – dove cioè risulta evidente la sua natura artificiale – è spesso usata da Osamu Tezuka a fini umoristici. Nel caso di Atom, creato a immagine e somiglianza di un bambino reale, ciò contribuisce a mantenere una demarcazione sottile ma decisiva. La capacità umana di provare empatia e familiarizzare con un robot, per un fenomeno noto come uncanny valley e descritto per la prima volta nel 1970 da Masahiro Mori, è direttamente proporzionale alla sua somiglianza con una figura umana, ma superata una certa soglia di realismo lascia il posto a sensazioni spiacevoli di repulsione e inquietudine riconducibili alla sfera freudiana del perturbante (Unheimliche). La cuteness di Atom, per questo motivo, deriva per lo spettatore non solo da ciò che lo rende simile a un bambino (gli occhi grandi, le lunghe ciglia, il volto tondo e le proporzioni del corpo), ma anche da ciò che conferma la sua specificità robotica.

La goffaggine del robot che impara a muovere i primi passi tra una caduta e l’altra, del resto, ricorda quella di ogni bambino nei primissimi anni di vita, così come l’idea di un’innocenza infantile, divenuta un mito dal momento in cui Freud pubblicò i Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), può essere accostata alla condizione di un essere artificiale. Il legame di affinità tra il robot e il bambino può allora ispirare una riflessione diversa, fondata non tanto su un rapporto di somiglianza con la figura umana in sé e per sé, quanto su ciò che segna la loro specifica alterità rispetto a ciò che le circonda.

Nel manga Io sono Shingo, ambientato in una Tokyo desolata dove ogni cosa appare duplice e ingannevole, Kazuo Umezu immagina l’infanzia e l’intelligenza artificiale come entità pure e in un certo senso aliene, perché radicalmente incompatibili con un mondo adulto composto da persone inaffidabili, corrotte o malvagie. Il protagonista della serie – pubblicata in origine sulla rivista seinen Big Comic Spirits dal 1982 al 1986, e recentemente tradotta in Italia da Star Comics – è un robot industriale dall’aspetto di un grande braccio meccanico computerizzato, distante anni luce dall’immaginario convenzionale del robot umanoide, il cui “risveglio” – cioè la sua presa di coscienza – è narrato in parallelo alla storia d’amore tra due bambini, Satoru e Marine, che si incontrano durante una visita scolastica nella fabbrica in cui il robot è impiegato. Dopo la visita, Satoru e Marine prendono l’abitudine di visitare clandestinamente l’edificio, e man mano imparano a dare istruzioni al robot mediante l’interfaccia di un computer. La loro frequentazione diviene però sempre più difficile per via degli ostacoli posti dalle rispettive famiglie, e poi della partenza di Marine per l’Inghilterra. Riconoscendo nei due bambini i suoi genitori, il robot cercherà allora in tutti i modi di rimetterli in contatto, fuggirà dalla fabbrica e fronteggerà una serie di avversità sempre più estreme.


Come nell’episodio di Astro Boy, anche in Io sono Shingo la tecnologia assume una funzione di mediazione in una storia d’amore tra bambini, fornendo in questo modo una sorta di surrogato di un’unione altrimenti impossibile. Nel suo capolavoro distopico Aula alla deriva (1972–74) – forse il suo lavoro più rappresentativo – Umezu aveva già immaginato qualcosa di simile, quando a seguito della catastrofe che trasporta gli scolari nel futuro, in una scena emblematica, la madre del piccolo Sho riesce a sentire al telefono il grido del figlio grazie a un’anomalia del tessuto spazio-temporale. In entrambi i casi, l’amore e l’affetto trovano nella tecnologia un canale di espressione capace di superare qualsiasi distanza. Ciò che là aveva la forma di un miracolo fantascientifico e di una discontinuità netta nella storia, tuttavia, in Io sono Shingo è il prodotto di un’intelligenza artificiale che evolve in modo inarrestabile lungo tutto l’arco della vicenda, e che diviene tanto pervasiva da assumere addirittura il ruolo di voce narrante.

Le differenze tra le due opere investono poi più in generale la struttura della storia, che nel caso di Io sono Shingo non ha soltanto un carattere maggiormente sperimentale, ma anticipa anche per certi versi la bizzarria centrifuga dell’ultima serie di Umezu, Fōtin (Fourteen, 1990–95), dove la proliferazione di trame secondarie e bizzarre risulta a tratti eccessiva. L’intensità drammatica, in Aula alla deriva, deriva in prima battuta dalla somma di due problemi apparentemente insolubili: la sopravvivenza in uno scenario post-apocalittico e l’esilio spazio-temporale. La peculiarità di Io sono Shingo, al contrario, consiste nell’ambientare una storia d’amore in uno scenario da incubo, con una coincidenza quasi perfetta di utopia e distopia, dove però il secondo versante tende a prevalere. Il senso di abbandono e claustrofobia che in Aula alla deriva si respira tra i corridoi della scuola e nelle lande desertiche del futuro si estende qui all’intera superficie della Terra, e le possibilità di riscatto, in assenza di uno scarto temporale da cui fuggire, paiono ancora più ridotte.


La “regina” del manga horror Kanako Inuki, in un’intervista rilasciata in occasione della pubblicazione americana di School Zone, ha ricordato il contribuito di Umezu nello sviluppo del genere Kaiki Kyofu (caratterizzato da un tipo di terrore più impalpabile, interiore e soggettivo): «I personaggi delle sue storie hanno sempre una loro particolare visione del mondo, ed è questo che rende le cose spaventose. Non un’immagine, ma il modo in cui le emozioni dei personaggi vengono proiettate sul lettore, facendoti sentire non solo terrorizzato, ma anche in preda alla gelosia, immerso nel dolore, oppure toccato dal disprezzo (o per lo stesso motivo dall’amore)».

Nelle scene più ispirate di Io sono Shingo, in effetti, l’orrore non deriva tanto dalla violenza (pure ampiamente presente), quanto da una rappresentazione straniata del tempo e dello spazio e dalle conseguenti vertigini percettive, che investono sia i protagonisti che il lettore. È il caso di una sequenza al cardiopalma, tra le più emblematiche dell’intera opera, in cui Satoru e Marine si arrampicano sulla cima della Tokyo Tower e pensano di doversi lanciare nel vuoto, per far sì che il loro sogno di amore si avveri, o delle splendide tavole che introducono i capitoli, dove i due bambini compaiono in scenari urbani futuristici. Nessuna di queste immagini è connessa in modo diretto alla trama delle vicende narrate, ma tutte quante compongono una sorta di dimensione virtuale che li vede sempre uniti, e nella quale si riflettono le loro fantasie inconciliabili con la realtà.


Quando poi Umezu traduce a livello grafico lo sguardo e i pensieri dell’intelligenza artificiale, il risultato sono delle tavole virtuosistiche di rara bellezza e di grande forza poetica. Come l’occhio di HAL 9000 in 2001: Odissea nello spazio (1968), Shingo osserva il mondo dalla particolare prospettiva di una macchina, ma a differenza del suo celebre predecessore, pur non essendo programmato per provare emozioni, sembra animato da una coscienza e da un’intelligenza emotiva che si sviluppano in modo totalmente imprevedibile, e che al contatto coi due bambini protagonisti – ma anche, più avanti, con gli animali – lo conducono a una progressiva umanizzazione.

Il punto di vista robotico e quello dell’infanzia si incontrano così su un piano alternativo rispetto a quello del calcolo matematico e della logica degli algoritmi, in una dimensione dominata dal pensiero magico e da sentimenti che travalicano il tempo e lo spazio. In un mondo sempre più disumanizzato, il risveglio del robot corrisponde a quello del bambino appena nato che riconosce per la prima volta i suoi genitori, e il miracolo dell’intelligenza artificiale prefigura scenari che vanno molto al di là dei fenomeni dei big data e del machine learning. Nella fantasia di Umezu, come nella lingua giapponese, ai non è tanto l’acronimo di artificial intelligence, quanto una parola che significa “amore”.