02/05/18

La seconda vita di Kazuo Umezu [II. Le opere della maturità]



Una svolta importante nella carriera di Kazuo Umezu risale ai primi anni ’70, quando l’autore, distintosi già all’epoca come maestro dell’orrore per i suoi racconti a fumetti, cominciò a realizzare serie di più ampio respiro e a sperimentare soluzioni narrative mai esplorate prima di allora.

Se i racconti horror pubblicati da Umezu negli anni ’60 erano impostati soprattutto sui registri del soprannaturale e dello psicologico, con frequente ricorso a un repertorio di figure caratteristiche del folklore orientale o legate alla sfera simbolica del femminile, è sufficiente una rapida scorsa alle serie prodotte a partire dagli anni ’70 – dalla distopia scolastica di Aula alla deriva al morboso dramma psicologico di Senrei, fino agli incubi stranianti e fantascientifici di Watashi wa Shingo e Fōtīn per constatare quanto in esse si rifletta un notevole ampliamento dello spettro tematico, le cui declinazioni più interessanti riguardano la fantascienza e un tipo di orrore di impronta metafisica che sfugge alle usuali categorie di genere.

Aula alla deriva (1972–74)

Un esempio notevole è dato già dalla prima serie pubblicata da Umezu negli anni ’70 sulle pagine di Weekly Shōnen Sunday, vale a dire Aula alla deriva (Hyōryū Kyōshitsu, 1972–74), da poco disponibile anche in traduzione italiana grazie a Hikari. Considerato dai più il capolavoro dell’autore, Aula alla deriva presenta il racconto allucinato di una scuola elementare che un giorno, inspiegabilmente, scompare nel nulla, mentre tutti gli alunni che la occupavano sono trasportati assieme all’edificio in un lontano futuro dove l’intero mondo è ridotto a una landa deserta, arida e inospitale. Il tema distopico legato al contesto scolastico sarebbe stato ripreso nei decenni successivi da altri mangaka, fino a diventare una sorta di filone o sottogenere, comprendente tra gli altri Battle Royale di Koushun Takami e Masayuki Taguchi (2000) e Fortified School (1995) di Takeshi Narumi e Shinichi Hiromoto, di cui Aula alla deriva può essere considerato l’autorevole capostipite. Le fonti di ispirazione della serie di Umezu vanno però molto al di là dell’orizzonte fumettistico, perché includono come modello letterario privilegiato The Lord of the Flies di William Golding (1954), e come ineludibile riferimento storico, percepibile soprattutto nelle prime pagine, i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki.

L’incubo atomico ha esercitato un’influenza cruciale sia sul fumetto, sia sulla letteratura di fantascienza giapponese. Per quanto riguarda il manga, è impossibile non ricordare la testimonianza autobiografica oggetto di una monumentale rielaborazione nel Gen di Hiroshima di Keiji Nagazawa (Hadashi no Gen, 1973–74), ma anche l’epilogo apocalittico – per passare al territorio della finzione – dell’Akira di Katsuhiro Otomo (1982–90). Quanto alla letteratura di fantascienza giapponese, un bel volume ripubblicato di recente da Fanucci, La leggenda della nave di carta (2002 e 2017), antepone in modo significativo ai racconti alcune delle testimonianze dei sopravvissuti raccolte da Arata Osada nel 1951, e poi tradotte in inglese nel 1959 sotto il titolo Children of the A-Bomb.

In Aula alla deriva la catastrofe si consuma nel giro di pochi istanti, annunciata da una violenta scossa di terremoto e rappresentata attraverso una magistrale successione di tavole; i suoi effetti sulla psicologia dei personaggi si amplificano però col tempo, e si fanno via via più drammatici dal momento in cui i bambini cominciano a intuire di essere prigionieri in un futuro dove ogni prospettiva di vita pare annientata, e dove la sopravvivenza di ciascuno impone un costo per la collettività. Al motivo dell’homo homini lupus, che prima di riguardare un numero sempre crescente di bambini si incarna nelle poche figure di adulti ancora presenti nella scuola, ridotte ai più bassi istinti di autoconservazione, si accompagna ben presto quello di un’umanità ridotta alla sua condizione infantile, priva di punti di riferimento perché tutti i maestri della scuola hanno finito per uccidersi tra di loro o suicidarsi in preda alla disperazione.

Aula alla deriva (1972–74)

Se la sopravvivenza dei bambini dipenderà allora dalla volontà e della capacità collettiva di rifondare un’intera società, definendo le regole, i ruoli e i compiti di ciascuno per affrontare minacce interne o esterne (da quella onnipresente della fame al pericolo di ribellioni organizzate, dalla comparsa di strane malattie all’arrivo di creature mostruose), la possibilità di risanare la frattura temporale, e dunque di ritornare nel mondo familiare del passato, pare in ogni caso fuori discussione. Uno degli espedienti che maggiormente contribuiscono alla potenza tragica della storia, in effetti, consiste nel presentare una situazione problematica di portata già notevole (la difficile sopravvivenza in uno scenario post-apocalittico) all’interno di una tragedia apparentemente insolubile (l’esilio spazio-temporale). Esiste però un’eccezione, ovvero alcuni istanti isolati nei quali i due mondi lontani, per quello che appare come un miracolo o un’anomalia del tessuto spazio-temporale, sono in grado di comunicare tra di loro. In questi momenti l’impronta fantascientifica e metafisica della storia si fa più marcata, ma al tempo stesso l’orrore lascia il posto all’espressione di emozioni che delineano il versante psicologico più profondo della serie, in tavole dove il racconto, distribuendosi su due piani temporali autonomi anche nella resa sulla pagina, assume accenti più sinceri e una più commovente capacità evocativa.

Al di là delle prove di coraggio e delle tremende avversità, ciò che in effetti è davvero memorabile dei bambini di Aula alla deriva è il soverchiante senso di smarrimento e nostalgia che accompagna ogni loro gesto, richiamando in filigrana la psicologia infantile degli affetti e dei ricordi, e che soprattutto nel caso di Sho, il bambino protagonista, si appunta in modo struggente sulla figura della madre. Al mondo deserto, ostile e disumano si contrappone così una sfera materna e famigliare idealizzata in quanto perduta, che nella rievocazione dello stesso Sho, cui è affidato il racconto delle vicende, comincia non a caso con la parola che gli è più cara, e per la quale nemmeno nell’aldilà dov’è confinato può rassegnarsi alla condizione di orfano: “Mamma… quando penso a quel momento incredibile che non potrò mai dimenticare, mi tornano inesorabilmente alla memoria, con una nitidezza lacerante e carichi di significato, moltissimi fatti che al tempo sembravano senza importanza”.

Senrei (1974–76)

Il tema della maternità ritorna in una prospettiva ben più oscura e morbosa nel successivo Senrei (lett. Battesimo, 1974–76), storia di un’attrice costretta a ritirarsi dalle scene per via di una malattia della pelle, ma che pur di riconquistare la sua antica bellezza, con l’aiuto di un dottore, mette in atto un piano per rivivere letteralmente nei panni della figlia. Incentrato quasi esclusivamente su personaggi femminili, il racconto si riallaccia alle storie realizzate da Umezu durante il decennio precedente, nelle quali l’orrore si accompagnava soprattutto a figure di donne o a simboli chiaramente riconducibili alla sfera del femminile, come ragni e serpenti, approfondendone le suggestioni all’interno di una narrazione maggiormente articolata.

Ben più interessante è comunque il titolo con cui Umezu torna a rielaborare la propria poetica orrorifica dopo la parentesi comico-burlesca di Makoto-chan (1976–81), ovvero Watashi wa Shingo (Io sono Shingo, 1982–86), parabola oscura e straniante che narra il risveglio della coscienza di un computer in parallelo alla storia d’amore tra due bambini. La storia prende il via quando il padre di Satoru, scolaro all’ultimo anno della scuola primaria, annuncia che nella fabbrica in cui lavora verrà a breve impiegato un braccio meccanico programmato per mezzo di un computer. L’interesse di Satoru per la nuova tecnologia e per il mistero che la circonda aumenta nel momento in cui, durante una visita scolastica alla fabbrica, incrocia lo sguardo con una bambina di un’altra scuola, Marine, della quale si innamora all’istante. I due bambini si incontrano poi nuovamente nei pressi della fabbrica, e cominciano a visitare clandestinamente la sala dove si trova il braccio meccanico, imparando anche a dare istruzioni al computer. A fronte degli ostacoli alla loro frequentazione posti dalle rispettive famiglie, la nuova tecnologia offre allora ai bambini l’inedita possibilità di conservare dati che li riguardano nella memoria del computer e di comunicare attraverso la sua interfaccia. I ripetuti tentativi di Satoru e Marine condurranno al risveglio dell’intelligenza artificiale, a cui appartiene una voce narrante impostata sui toni del ricordo e della nostalgia, e arriveranno a rendere possibile, come coronamento del loro amore, una forma di concepimento asessuato per il tramite della macchina.

Watashi wa Shingo (1982–86)

Opera densissima e labirintica, Watashi wa Shingo presenta numerosi motivi di interesse difficilmente riassumibili in qualche paragrafo. Rispetto alle altre serie di Umezu colpisce in primo luogo la sua assoluta anticonvenzionalità strutturale e narrativa, evidente soprattutto in alcune soluzioni dell’intreccio che nei primi capitoli possono apparire arbitrarie e bizzarre. La scansione dei colpi di scena alla fine delle varie sequenze narrative, in particolare, è molto meno marcata rispetto agli standard dell’autore, e permette alla trama di dipanarsi con maggiore libertà in senso centrifugo. Anche le bellissime tavole a pagina intera che introducono ogni capitolo si rivelano anomale perché mostrano scene avulse dalla storia, nelle quali compaiono tipicamente Satoru e Marine in scenari urbani futuristici. 

Il senso di solitudine e di smarrimento dei bambini nell’enorme metropoli è in effetti uno dei motivi meglio tratteggiati della serie, e nella successione di queste tavole che compongono una sorta di binario parallelo della narrazione è amplificato in quella che appare come una realtà virtuale, dove si riflettono e prendono forma le loro fantasie più intime. Al motivo della virtualità si connette poi quello della percezione, che permette a Umezu di esplorare in profondità e a doppio senso il rapporto tra uomo e macchina, portandolo anche a tradurre a livello grafico, in tavole di grande efficacia, lo sguardo dell’intelligenza artificiale. A tutto questo sono almeno da aggiungere la consueta contrapposizione tra infanzia e mondo adulto, un topos di Umezu qui arricchito dai motivi della sessualità e della tecnologia, i non pochi riferimenti alla cultura consumistica, e soprattutto la messa in scena di un tipo di orrore fondato in primo luogo sullo straniamento emotivo e percettivo, come in una memorabile sequenza al cardiopalma che vede i due bambini arrampicarsi sulla cima della Tokyo Tower. La storia d’amore tra i due bambini e la sua evoluzione in stretto rapporto col computer, infine, è interessante per l’intuizione secondo cui l’arrivo di nuove forme di progresso tecnologico annuncia la possibilità di rivolgimenti culturali più estesi, relativi ai rapporti sociali, alle consuetudini e anche alla sfera dell’etica.

Kami no Hidarite Akuma no Migite (1986–88)

Se questa serie è probabilmente la più riflessiva e criptica dell’autore, nonché quella per cui l’etichetta di genere suona più riduttiva, la successiva Kami no Hidarite Akuma no Migite (in inglese: God’s Left Hand, Devil’s Right Hand, 1986–88) raccoglie invece diverse storie soprannaturali e ultraviolente, aventi come principale protagonista un bambino dotato di chiaroveggenza, e segna l’apice nella rappresentazione di scene cruente oltre ogni immaginazione (la vignetta più iconica ritrae ad esempio il viso di una ragazzina mentre le lame di un paio di forbici, fuoriuscendo dal cranio, trapassano i suoi occhi).

Un elemento tipico di queste storie è il costante riferimento a un mondo adulto che agli occhi del bambino, anche per via del sostrato soprannaturale che permea la narrazione, appare ambiguo, indecifrabile e indegno di fiducia: gli stessi genitori, i vicini di casa o gli insegnanti sono il più delle volte persone che nascondono una doppia identità, e dalle quali i piccoli protagonisti si trovano a doversi difendere allo stesso modo in cui devono affrontare l’avverarsi di una maledizione o di un incubo ossessivo. Che il tramite della paura assuma la forma di un paio di forbici arrugginite, di un misterioso omicidio avvenuto a scuola, di una creatura che rinnova la serie delle “donne ragno”, di un padre psicopatico oppure di un demone antropofago, le sue vittime sono sempre piccoli màrtiri sottoposti a una lunga trafila di violenze e crudeltà in nome della loro innocenza. Ciò può senz’altro apparire eccessivo e fastidioso in sé e per sé, trattandosi di violenze su bambini, o per la ripetitività con cui lo schema è riproposto a più riprese, ma è comunque lontano dall’essere un espediente gratuito e superfluo, come appare chiaro a una lettura delle storie condotta su più livelli.

Fōtīn (1990–95)

Di ispirazione ancora più complessa e altrettanto audace è poi Fōtīn (Fourteen, 1990–95), l’ultima e la più longeva serie realizzata da Umezu. La storia, ambientata in un futuro distopico, prende il via quando una contaminazione genetica in un’industria produttrice di carne di pollo porta alla nascita di un mutante dal corpo umano e dalla testa di gallo. L’essere si rivela presto dotato di un’intelligenza fuori dal comune, che mette al servizio di un piano per eliminare la razza umana, responsabile della distruzione di pressoché tutti gli ecosistemi del pianeta e dell’estinzione di ogni specie animale. Ne deriva una saga bizzarra e assolutamente sopra le righe, talmente weird e divagante che molto spesso risulta davvero difficile da prendere sul serio, e che coinvolge tra le altre cose una sinistra profezia (“It will all end at fourteen”), il presidente degli Stati Uniti, un’improvvisa invasione aliena, ma anche viaggi spaziali e dinosauri, il tutto in parallelo al destino dell’uomo e del pianeta Terra.

Dato l’eccesso e la stranezza di queste ultime due serie, che per Fōtīn rischia spesso di diventare pura ridondanza, non ci si può stupire che esse non siano state ancora pubblicate fuori dal Giappone, anche se d’altra parte se ne potrebbe auspicare l’arrivo. Più in generale, lo stesso profilo autoriale anomalo che è stato sempre proprio di Umezu ha comportato in Occidente una ricezione differita di tutta la sua opera, compreso il capolavoro Aula alla deriva. Ora che diversi editori europei hanno cominciato a riproporre le sue storie, del resto, una riflessione ulteriore potrebbe essere condotta sul loro valore in rapporto al pubblico di riferimento, nonché ai mutamenti di quest’ultimo nel corso del tempo. Le riviste giapponesi su cui Umezu pubblicò per la prima volta molte sue storie, ad esempio, erano lette da bambini e ragazzi (tra le serie della maturità fanno eccezione le ultime due e Watashi wa Shingo, pubblicate sulla rivista seinen Big Comic Spirits), mentre oggi sarebbe impensabile, perlomeno in Italia, proporre tali storie alla medesima fascia di età. L’attuale riscoperta di Umezu nel mondo occidentale, ovvero quella che si potrebbe definire la sua seconda vita, porterebbe allora con sé almeno un parziale equivoco: l’autore, nel momento in cui è finalmente celebrato a livello internazionale come un maestro dell’orrore, ha perduto quello che per alcune opere ha considerato come il pubblico ideale, capace di apprezzare a cuor leggero l’oltranza narrativa delle sue storie e di rabbrividire con gusto alle sue trovate da incubo.


Note
Aula alla deriva è stato pubblicato in Italia da Hikari, in tre volumi da oltre 700 pagine l’uno (2017–18). Senrei è stato pubblicato in Francia da Glenat in quattro volumi, col titolo Baptism (2006–07), ma si può leggere online anche in una traduzione inglese amatoriale. Watashi wa Shingo è stato pubblicato in Francia da Lezard Noir, col titolo Je suis Shingo, a partire dal 2017, e in Italia da Star Comics, col titolo Io sono Shingo, a partire dal 2019. I capitoli di Kami no Hidarite Akuma no Migite si possono leggere online in inglese (God’s Left Hand, Devil’s Right Hand), così come quelli di Fōtīn (Fourteen).