05/12/19

L’occhio del figlio, l’immagine del padre


Il termine “metaforico” è ripetuto più volte in Parasite (2019) di Bong Joon-ho, e riporta alla mente l’immagine delle serre bruciate in Burning (2018) di Lee Chang-dong – un altro film coreano ispirato a un racconto di Haruki Murakami –, o quella del misterioso elefante di An Elephant Sitting Still (2018) di Hu Bo. La metafora è una figura di confine tra presenza e assenza, reale e immaginario: deriva almeno in parte da una finzione, ma allude sempre a una particolare verità. In diversi film rappresentativi delle più importanti tradizioni cinematografiche asiatiche degli ultimi decenni – dal nuovo cinema di Hong Kong a quello taiwanese, passando per il Giappone, la Cina e la Corea del Sud –, espedienti come il ricorso a oggetti simbolici o medium iconici sono impiegati con grande coerenza per esprimere gli aspetti più nascosti di certe dinamiche sociali e familiari.

Un motivo che in Parasite permette di approfondire il discorso sui conflitti di classe riguarda ad esempio il rapporto tra generazioni differenti, e nello specifico tra padri e figli. Altre rappresentazioni memorabili di questo rapporto – analizzate nei paragrafi successivi – compaiono in Angeli perduti (1995) di Wong Kar-wai, Yi Yi (2000) di Edward Yang, Father and Son (2013) di Hirokazu Kore-eda e Takara – La notte che ho nuotato (2017) di Damien Manivel e Kohei Igarashi, e pur nella diversità degli approcci riflettono alcune tendenze comuni, a partire da una visione della figura paterna che assume il punto di vista dell’infanzia come occasione di uno sguardo alternativo, metaforico e rivelatore.


I.
Una delle prime scene di Parasite (2019) mostra un disegno del piccolo Da-song, incorniciato e appeso accanto a una foto di famiglia che l’inquadratura taglia a metà. Sua madre lo definisce un autoritratto del bambino, descritto come un artista in erba, e in seguito la macchina da presa ne riprende da vicino un altro analogo. Il tono umoristico di entrambe le scene riesce a dissimulare il carattere inquietante dei disegni, e soprattutto la presenza di dettagli che evocano con largo anticipo il nucleo più oscuro della storia, ma dei quali è impossibile accorgersi a una prima visione. Il disegno di Da-song, come ha scritto Dario Tomasi, «è in qualche modo lì a indicare lo “scheletro che si nasconde nell’armadio”», e che nel corso del film assume una concretezza crescente: dapprima è un trauma avvolto nella sfera del non detto, in seguito è un fantasma, e infine si rivela un uomo in carne e ossa. Nel primo disegno somiglia davvero a uno scheletro disseppellito (sotto la tenda, in basso a destra, è possibile riconoscere altre ossa, e sopra una grande freccia gialla che indica una direzione ascendente); nel secondo impugna un’arma; in entrambi ha il volto insanguinato.



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