04/03/24

I visori e il futuro dell’educazione


Credo che il lancio del nuovo visore Apple Vision Pro, in vendita dal 2 febbraio negli Stati Uniti, debba suscitare in ciascuno di noi delle domande circa la società in cui viviamo e il mondo che vorremmo abitare. Guardando le immagini e i video diffusi, nei quali si vedono persone che indossano il costoso gadget tecnologico per strada, sui mezzi pubblici e perfino alla guida di auto, immerse nel loro mondo “aumentato” ed estraniate dalla realtà sociale, il mio pensiero è corso subito alle aule di scuola.

I magnati della tecnologia ritengono che questi visori, combinati con l’intelligenza artificiale, rappresenteranno il futuro dell’educazione: non tanto strumenti che un insegnante potrà o meno integrare nelle pratiche scolastiche, valutandone l’utilizzo anche in base al contesto e all’età dei suoi studenti, quanto dispositivi che permetteranno a bambini e ragazzi di qualsiasi età di interagire per la maggior parte della giornata con ambienti digitali, in quella che a tutti gli effetti sarà una simulazione di scuola. Visori che oggi sono a disposizione dei più ricchi, inoltre, potranno essere in futuro destinati alle fasce più povere, alle quali sarà forse concesso di ambire soltanto a un surrogato di istruzione, in un mondo in cui le disuguaglianze sociali e la concentrazione di potere nelle mani di poche aziende cresceranno a dismisura. Allo stesso modo, sfruttando l’idea di garantire a tutti i vantaggi di questa tecnologia, la sua esportazione nei paesi del Sud globale potrà segnare un nuovo capitolo nella storia del colonialismo digitale.


Oggi questa visione appare meno fantascientifica rispetto ai tempi pre-pandemici, e soprattutto è condivisa da persone molto influenti, che non esitano a investire denaro per trasformarla progressivamente in una realtà concreta. Questa visione di medio-lungo termine, inoltre, si nutre di tante visioni di breve termine che sono già da tempo oggetto di propaganda sui media e vantano l’appoggio di insegnanti desiderosi di mostrarsi innovativi, ignari di quanto ogni passo sulla strada di certe strumentalizzazioni forzate, mistificando il senso e il valore del loro ruolo, li avvicini a una rapida obsolescenza.

Un esempio molto esplicito si può leggere nel volume AI 2041 (Luiss 2023), frutto della collaborazione fra lo scrittore Chen Qiufan e l’ex presidente di Google China Kai-Fu Lee, concepito proprio per divulgare una visione positiva di un futuro dominato dalla tecnologia. I due bambini orfani del racconto “I passeri gemelli”, dopo la morte dei genitori, sono accolti in un prestigioso istituto finanziato da una fondazione privata, i cui programmi di istruzione consistono essenzialmente nell’assidua interazione con sofisticati dispositivi tecnologici. Fin dalla più tenera età, ciascun bambino viene dotato di un visore che gli permette di comunicare col proprio tutor artificiale e con studenti virtuali, mentre un bionastro registra i suoi dati fisiologici e comportamentali e li sincronizza in tempo reale con il cloud. Si trovano qui riunite e portate all’estremo alcune tendenze pedagogiche contemporanee, come la medicalizzazione, l’interesse per i dati e soprattutto la learnification, che un importante filosofo dell’educazione, Gert Biesta, ha paragonato alla situazione di apprendimento programmato dei robot aspirapolvere.

Per promuovere i vantaggi di questa istruzione individualizzata, nell’analisi che segue il racconto, Lee fa leva su due concetti che sono spesso presentati in modo opaco, e così ridotti a slogan che si prestano a una facile strumentalizzazione: da un lato il coinvolgimento dello studente, che somiglia in realtà a una forma di intrattenimento compulsivo; dall’altro la personalizzazione delle attività, fondata su una logica performativa controllata dall’algoritmo, che isola l’alunno dalla realtà sociale. È chiaro che in uno scenario del genere la relazione educativa è tramutata in una simbiosi utente-macchina, per quanto Lee cerchi di evocare in maniera eufemistica tale trasformazione, parlando di insegnanti-mentori che potranno dedicare più tempo all’intelligenza emotiva e alla resilienza degli studenti. Come conferma lo stesso racconto, scomparsa la classe e sostituiti i compagni con surrogati virtuali, l’insegnante è relegato alla funzione di operatore della macchina, addetto al controllo e alla programmazione dello strumento che l’ha espropriato del suo ruolo.

Leggendo il volume con un minimo di distacco critico, inoltre, la sensazione è che questo processo di spossessamento abbia colpito anche il linguaggio, forgiando una comunicazione piatta, monotona, asettica, tanto ricca di descrizioni stereotipate e didascaliche quanto povera di tensioni e ambiguità. Chen parla di «realismo fantascientifico», Lee di «fiction scientifica», due formule che svelano un’operazione di sfruttamento della finzione letteraria, piegata alle esigenze della divulgazione. Ogni racconto pare in effetti un pretesto per i commenti che lo circondano, e forse non è un caso se Chen, in passato, ha dichiarato di essersi servito di un’intelligenza artificiale, sviluppata col supporto di Lee e programmata per produrre testi che imitino il suo stile, perché le storie di AI 2041 sembrerebbero esempi perfetti di una scrittura automatizzata, nella quale è difficile riconoscere il soffio dell’ispirazione.


[continua su Doppiozero]