04/11/21

80 anni di Dumbo, il miracolo Disney


Tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta, Walt Disney diede fondo alle proprie risorse per creare i suoi primi lungometraggi animati, destinati a segnare la storia del cinema e le fantasie di intere generazioni di bambini. Vinta con Biancaneve e i sette nani (1937) la sfida titanica del passaggio al formato lungo, le sue ambizioni si concentrarono sulla possibilità di dar vita a titoli sempre più raffinati e spettacolari, capaci di eguagliare o addirittura superare le potenzialità espressive dei film dal vero. La perizia artigianale di Pinocchio (1940), i virtuosismi sinestetici di Fantasia (1940) e l’eleganza stilistica di Bambi (1942) dimostrano che gli esiti artistici raggiunsero ben presto la soglia dell’eccellenza, ma gli sforzi di Disney e dei suoi collaboratori dovettero far fronte a enormi difficoltà produttive.
 
Biancaneve e i sette nani, costato all’incirca l’equivalente degli introiti annuali del 1937, aveva quasi triplicato i guadagni dello studio Disney nell’anno successivo, ma Pinocchio e soprattutto Fantasia si rivelarono progetti tanto ambiziosi quanto fallimentari, considerando le spese sostenute per la realizzazione e gli ingenti prestiti richiesti alla Bank of America. Completato il trasferimento nella nuova sede di Burbank, nel frattempo, una parte dei mille e passa dipendenti si era riunita in un sindacato, e nel maggio 1941, dopo un’ondata di licenziamenti, aveva organizzato uno sciopero che si protrasse per qualche mese ed ebbe profonde ripercussioni. In piena crisi, tra le pressioni della banca e degli azionisti e il crollo dei mercati europei, la sorpresa che risollevò le sorti della Disney arrivò infine dalla più imprevedibile delle sue creature, un gioiellino di nome Dumbo.

Viste retrospettivamente, le vicende produttive del film sembrano ricalcare la storia a lieto fine dell’elefantino protagonista, novello brutto anatroccolo che diventa una stella del circo imparando a usare le sue grandi orecchie come ali, ovvero a valorizzare la propria diversità. Costato molto meno dei precedenti lungometraggi e di Bambi, ai quali erano perlopiù rivolte le attenzioni di Disney, il suo successo al botteghino, la calorosa accoglienza del pubblico e i plausi della critica fecero di Dumbo un modello ideale per le produzioni future, e non solo come esempio di progetto a basso budget, in grado di garantire una sicura sostenibilità economica.

La lavorazione di Dumbo seguì un iter assai più rapido, diretto e istintivo rispetto agli altri lungometraggi dell’epoca. Originariamente pensata per un cortometraggio, la storia divenne in pochi mesi una sceneggiatura via via più ricca, finché il film non raggiunse la sua lunghezza definitiva. Come ricorda Michael Barrier in Vita di Walt Disney (Tunué 2009), quindici anni dopo l’uscita nelle sale, nel 1956, Walt Disney lo definì «la cosa più spontanea che abbiamo mai fatto. […] Cominciò con un’ideuzza e, mentre continuavamo a lavorarci, non facevamo che aggiungervi qualcosa; prima che ce ne fossimo resi conto, avevamo un film». E l’anno prima, in apertura della seconda stagione della serie televisiva Disneyland, Walt aveva rivelato che tra tutti i film Disney, Dumbo era il suo preferito.


Ognuno a suo modo, Biancaneve e i sette nani, Pinocchio, Fantasia e Bambi sono capolavori di tecnica artistica, ma soltanto Dumbo è un capolavoro di ispirazione, tale da incarnare nella sua forma più pura la poetica disneyana. Dumbo è il più breve dei classici Disney (64 minuti), meno ricercato e più essenziale dei lungometraggi coevi, notevole sia per densità che per ritmo ed equilibrio. Molte recensioni parlano non a caso di un’opera “perfetta” in ogni suo aspetto, e diversi critici la considerano l’apice assoluto nella filmografia Disney.

Dumbo fu anche il primo lungometraggio disneyano a presentare una storia originale – dettaglio importante a livello simbolico, poiché Walt Disney ambiva a dimostrare di essere un artista a tutto tondo, e non soltanto un abile adattatore di fiabe e racconti. La trama venne in realtà ricavata da un manoscritto di cui Disney aveva acquistato i diritti in esclusiva prima della pubblicazione, con storia di Helen Aberson e disegni di Harold Pearl, e che avrebbe dovuto far parte della serie “Roll-A-Book” (libri-scatola con due manopole laterali per scorrere le figure in un riquadro ritagliato in copertina). Non si trattò insomma di un adattamento, bensì di un’adozione, e la differenza contribuì in modo determinante al suo sviluppo.

Liberi dal confronto con un modello letterario, tutti coloro che contribuirono alla realizzazione del film poterono dare piena espressione alla propria creatività, senza preoccuparsi delle aspettative del pubblico. Varie testimonianze ricordano la lavorazione di Dumbo come un grande gioco al rialzo, nel quale il divertimento consisteva nella ricerca continua delle soluzioni narrative migliori. Numerose furono le varianti introdotte rispetto alla storia e ai personaggi del manoscritto originale, a cominciare dalla trasformazione di Dumbo in un cucciolo e del suo amico pettirosso in un topolino. E ancor più sorprendente fu il lavoro dei disegnatori, tra i quali spicca in particolare il contributo di Bill Tytla.

«Con Bill ogni cosa era emozione. In tutto ciò che animava sapeva mostrare attraverso le azioni dei personaggi le loro sensazioni interiori, con un’intensità incredibile» scrissero i suoi colleghi Frank Thomas e Ollie Johnston in The Disney Villain. Nei film precedenti, sue erano le animazioni di alcuni dei personaggi più estrosi e pittoreschi: Brontolo in Biancaneve e i sette nani, Stromboli in Pinocchio e il demone Chernabog nell’episodio “Una notte sul Monte Calvo” di Fantasia. Data l’espressività che Tytla aveva saputo infondere a queste figure, non stupisce che per Dumbo Disney abbia deciso di affidargli personalmente il compito di animare l’elefantino protagonista, consapevole dell’intrinseca natura caricaturale del film, distante dal sofisticato stile naturalistico di Bambi.

Nel primo lungometraggio disneyano, dove i due stili modellano rispettivamente la rappresentazione realistica di Biancaneve e quella cartoonesca dei sette nani, una scena spesso citata come esemplare della maestria di Tytla è quella in cui Biancaneve afferra un recalcitrante Brontolo e gli dà un bacio sulla fronte. Brontolo scappa subito via, ma non appena rallenta il passo comincia ad affiorare sul suo viso un’espressione confusa, dolce e trasognata, che diventa un sorriso e poi un lungo sospiro. È un momento magico, perché all’improvviso lo spettatore assiste all’epifania dei veri sentimenti di un personaggio che fino ad allora gli aveva mostrato solo una maschera. Ed è un momento che svela le enormi potenzialità dei disegni animati, intesi non solo come animazione dell’inanimato, ovvero come messa in movimento di figure statiche, ma anche come espressione di emozioni e di caratteri (ovvero di un’anima) attraverso la mimica facciale e il linguaggio del corpo.

Più ancora che allo spirito dell’animalità, in Dumbo, l’incanto di questo linguaggio espressivo e caricaturale attinge all’anima della primissima infanzia, con le sue emozioni spontanee e la meraviglia cangiante che nel film si rispecchia nello scenario del circo, al contempo festoso e terrificante nei suoi eccessi spettacolari. Lo stesso Tytla raccontò che l’ispirazione decisiva per Dumbo gli venne osservando le reazioni di suo figlio, che all’epoca aveva due anni: «Avevo fatto una sfuriata al mio bambino per avermi disturbato […] e lui non sapeva proprio che fare. Se ne stava lì fermo, magari per prendermi la mano e poi mettersi a piangere. […] Ho cercato di mettere in Dumbo tutte queste cose».

Come personaggio animato, però, Dumbo è anche l’erede di una specifica tradizione di “brutti anatroccoli” e piccoli freaks già consolidatasi in vari cortometraggi disneyani della serie Silly Symphonies, nei quali il tema della diversità è affrontato in contesti fiabeschi e favolistici. Oltre a due riadattamenti dalla fiaba di Andersen (1931 e 1939), è il caso di The Flying Mouse (1934), dove un topolino che sogna di volare si allontana dai fratelli, finché una fata non gli fa crescere per punizione delle ali da pipistrello, e di Elmer Elephant (1936), dove nell’elefantino deriso per il suo aspetto buffo è facile riconoscere un precursore ancora acerbo di Dumbo.

Esattamente come in questi cartoni, il cucciolo protagonista rimane muto per l’intera durata del film, in mezzo ad altri animali parlanti, e manifesta il proprio carattere non solo nelle interazioni con essi, ma prima ancora nell’espressività del suo corpo. L’anima di Dumbo si incarna negli occhi curiosi, timidi e guardinghi che nelle scene iniziali osservano ogni cosa per la prima volta, e più avanti, in modo ancora più mirabile, nella piccola proboscide che si protende verso la finestra della cella in cui è stata rinchiusa la madre. Non ha bisogno di parlare, e nel linguaggio dei gesti e del silenzio, anzi, trova una forma espressiva più elementare e coinvolgente di qualsiasi parola.


A ottant’anni dall’uscita del film, possiamo ricordare l’emozione di questa scena notturna in cui il cucciolo e la madre si riuniscono toccandosi ma senza potersi vedere, assieme all’impressionante visione psichedelica del corteo di elefanti rosa che appaiono in sogno a Dumbo ubriaco, come due delle sequenze in assoluto più memorabili dell’animazione disneyana, frutto di un irripetibile stato di grazia. Nemmeno il remake in live action e CGI diretto da Tim Burton nel 2019 è riuscito a restituire l’intensità del film originale, scegliendo anzi di distaccarsene per molti aspetti (a cominciare dalla durata più che raddoppiata e dall’aggiunta di un’importante cornice narrativa esterna alla vicenda dell’elefantino, che perde così la sua centralità).

Per un paradosso sempre più ricorrente, del resto, l’idea di avvicinare le nuove generazioni ai classici Disney del passato si è tradotta anche in questo caso nella produzione di una versione 2.0 di Dumbo, mentre il film originale sarebbe stato in seguito rimosso dal catalogo per bambini di Disney+, sulla scia di polemiche sugli stereotipi razzisti riscontrabili in una singola scena del film, divenuta oggetto di controversie già negli anni ’60. Senza entrare nel merito della questione, in un anno in cui Dumbo è stato ricordato dai media e sui social soprattutto per questa notizia, spesso alterata e strumentalizzata, vale forse la pena fare un passo indietro e provare a immergersi di nuovo nelle sue immagini, cominciando dall’inizio e al netto di qualsiasi pregiudizio o disclaimer. Ecco le cicogne in volo coi loro fagotti, la penisola della Florida vista dall’alto come su una mappa fantastica, gli animali del circo in attesa… Nessuna cornice narrativa a storicizzare il contesto sullo sfondo di vicende umane, come nel remake di Tim Burton, ma l’immediata visione di un immaginario denso di simboli che rimandano all’inconscio collettivo.

«Una mattina si sveglia con un sogno di elefanti troppo lungo e complicato perché sia possibile raccontarlo qui; basterà dire che l’elefante era uscito da un uovo in un nido situato su un’isola e che aveva le ali anche se non stava volando» scrive lo psicoanalista James Hillman in Animali del sogno, riconoscendo nel sogno di una sua paziente un antico motivo simbolico presente nella mitologia indù. In Dumbo le uova sono i fagotti portati dalle cicogne, i nidi le gabbie del circo con gli animali in attesa dei loro cuccioli, e le ali un paio di orecchie arrotolate. Anche Dumbo, all’inizio del film, «aveva le ali anche se non stava volando», perché non ha ancora ricevuto dai corvi la piuma che gli consentirà di spiccare il volo.

«Sente la combinazione nido uovo ala elefante come una forza spirituale» continua Hillman. «Sente che la sua sorte può cambiare.» Riconoscere in Dumbo la forza di una mitologia, allora, non significa solo misurare la distanza dell’originale dal remake, ma anche considerare la possibilità di una sua evoluzione nel corso del tempo. A differenza del film animato, ad esempio, il remake di Tim Burton non si conclude con la celebrazione di Dumbo come stella del circo, bensì col ritorno in India dalla sua comunità. L’ennesima variante corrisponde in questo caso a un’intuizione felice: non era forse già implicita nell’epilogo originale, nell’immagine della carovana del circo che si perde all’orizzonte come nel volo dell’elefante, l’idea di un viaggio verso l’altrove? All’uscita metaforica dall’uovo-gabbia, allora, seguirebbe coerentemente la fuga dal circo e dall’isola. Purché Dumbo continui a scorrazzare nei nostri sogni in tutte le sue forme, cucciolo antichissimo e sempre in procinto di rinascere, come in quel 23 ottobre del 1941 al Broadway Theatre di New York.
 

[Articolo pubblicato originariamente su Fumettologica, il 21 ottobre 2021]