12/12/18

Il corpo di Mickey


[Una versione leggermente editata dell’articolo è stata pubblicata su Fumettologica il 26/11/2018.]

Due tendenze storiografiche molto diffuse su Mickey Mouse, e spesse associate, consistono da un lato nell’attribuire al personaggio una determinata personalità o una serie di tratti caratteriali, e dall’altro nel considerarlo una sorta di icona tipicamente americana, portatrice più o meno inconsapevole di valori connaturati alla sua nazionalità. Entrambe le prospettive sono tutt’altro che esaurienti, e più che spiegare il segreto del successo di Mickey, se analizzate nel dettaglio, tradiscono l’incredibile complessità di una figura davvero unica nell’immaginario culturale del Novecento.

In un volume commemorativo dal titolo esemplare (Mickey Mouse. Emblem of the American Spirit, 2015), Garry Apgar nota che l’eroico Mickey dell’era della grande depressione, che secondo la nota lettura di Walter Benjamin rappresentava per la collettività il sogno di un’esistenza piena di meraviglie, non coincide col Mickey che tra gli anni ‘60 e ‘70, al culmine della guerra in Vietnam, diversi studiosi tentarono di smascherare come il subdolo campione di un’industria molto abile a occultare i suoi fini propagandistici, rinfocolando le critiche che allo stesso Benjamin aveva mosso decenni prima Theodor Adorno. E gli esempi di questo genere potrebbero moltiplicarsi, come appare evidente anche solo sfogliando la copiosa antologia curata dallo stesso Apgar, A Mickey Mouse Reader (2014), comprendente articoli che vanno dal 1928 ai giorni nostri.

Del resto, definire una volta per tutte quale sia la personalità di Mickey implica un’operazione di sintesi altrettanto discutibile, e la stessa teoria secondo cui il suo carattere avrebbe subìto negli anni un’evoluzione conforme a un processo di civilizzazione – dal piccolo scapestrato all’individuo perbene, ovvero dal bambino all’adulto – è senz’altro fondata, ma troppo generica in rapporto alla molteplicità di Mickey che si sono succeduti negli anni, su vari media e in numerosi paesi.


Un approccio diverso e forse più fecondo per affrontare la questione riporta alle radici del fenomeno, e invece che indagarne il successo nel corso del tempo sulla base di attributi come il carattere, lo spirito o una serie di valori ideologici, invita a riflettere in modo più concreto sui motivi originari della sua fascinazione. Dall’ampio orizzonte diacronico emerge così un preciso punto di fuga retrospettivo, corrispondente alla fine degli anni ‘20 e alla prima metà degli anni ‘30, che racchiude la nascita, l’infanzia e l’età d’oro di Mickey e precede l’inizio della grande stagione dei lungometraggi Disney.

In un celebre saggio, osservando lo sviluppo del personaggio attraverso la lente della biologia evolutiva, Stephen Jay Gould ha messo in luce come il suo aspetto sia stato oggetto fin dai primi anni di una progressiva infantilizzazione. Nonostante il processo sia continuato nel corso dei decenni, le sue tracce sono evidenti già nel passaggio dal più arcaico Mickey dei corti del 1928, via via dotato di scarpe, guanti, di arti meno sottili e di un muso meno prominente, al Mickey degli anni successivi, quando il suo aspetto si fissò per la prima volta nei suoi caratteri essenziali per poi rimanere pressoché immutato lungo l’intero arco degli anni ‘30.


Se l’aspetto di questo Mickey “classico”, che oltre ai guanti e alle scarpe indossa solo un paio di pantaloncini a quattro bottoni, rimane ad oggi il più iconico e riconoscibile, nei decenni successivi si è assistito a una tendenza a rivestire la star con abiti nuovi, facendole assumere identità di volta in volta differenti – dall’apprendista stregone di Fantasia (1940) a Bob Cratchit nel Mickey’s Christmas Carol (1983). Il Mickey originario è al contrario una creatura priva di travestimenti come di una reale personalità, un fascio di impulsi e reazioni primarie che oscillano dalla rabbia alla gioia, dalla paura all’euforia, nel volgere di una manciata di secondi. Gran parte della sua attrattiva, insomma, consegue da motivazioni puramente estetiche.

Le orecchie di Mickey sono due cerchi, così come è circolare la forma del suo viso, del suo bacino, dei palmi delle sue mani e dei bottoni sui calzoncini, e altrettanto arrotondata quella dei suoi occhi, del suo muso e delle sue scarpe. Il corpo di Mickey è una struttura perfettamente calibrata di cerchi sovrapposti e congiunti, ideale come modello di character design che anche i bambini possono disegnare in pochi passaggi, e proprio a causa della sua semplicità ed efficacia ha avuto un’influenza incalcolabile sull’evoluzione del fumetto e del cinema di animazione, ispirando ad esempio – come hanno dimostrato tra gli altri gli studi di Eiji Ōtsuka – la rivoluzione estetica dei manga portata a compimento da Osamu Tezuka.

Noburō Ōfuji, “Manga no kakikata” (da Patēshine, Maggio 1937)

L’idea decisiva del saggio di Gould indica che il fascino di Mickey può essere messo in stretta relazione con la natura neotenica del suo corpo, capace di suscitare nello spettatore una serie di potenti risposte emotive inconsce. Prima e più a fondo di qualsiasi richiamo ideologico e identitario, in effetti, le suggestioni degli antichi corti animati di Mickey Mouse – così come della serie Silly Symphonies – sembrano fare appello a una comune matrice biologica, o in altre parole evocare quella “zona dell’intimo più profondo e primitivo” che Ėjzenštejn riconobbe come il luogo privilegiato della creazione disneyana, “dove tutti siamo figli della natura”.

La causa profonda dell’attrattiva esercitata dai cartoni animati di Walt Disney, secondo la sua teoria, risiede nella loro capacità di innescare nello spettatore una sorta di regressione filogenetica inconscia, riconducibile alle facoltà metamorfiche e alla “plasmaticità” dei protagonisti di un mondo “uscito da sé”. Dei corti di Mickey Mouse precedenti all’avvento del colore Ėjzenštejn ricordava a puro titolo di esempio “la locomotiva che divora i ceppi di legna come pasticcini” (Mickey’s Choo-Choo, 1929), “gli hot-dog che ricevono una bella sculacciata dopo che si è loro abbassata la pelle in punti strategici” (The Karnival Kid, 1929) e “le tastiere di pianoforti i cui tasti canini azzannano il pianista” (The Jazz Fool, 1929), ovvero tre gag che mostrano chiaramente un processo di antropomorfizzazione legato alla messa in scena umoristica di determinate parti del corpo umano, in parallelo all’attribuzione “animistica” di reazioni ed emozioni a oggetti inanimati.

Mickey’s Choo-Choo (1929); The Karnival Kid (1929); The Jazz Fool (1929)

Osservazioni analoghe si ritrovano negli scritti di Walter Benjamin dedicati a Mickey Mouse, dove però l’accento è posto soprattutto su un aspetto pressoché trascurato da Ėjzenštejn, ovvero il ruolo della tecnica all’interno di tali giochi metamorfici. In merito al genere di esistenza propria di Mickey, Benjamin osservò che le sue meraviglie “non solo superano quelle della tecnologia, ma si prendono pure gioco di esse. Poiché […] tutte insieme scaturiscono senza macchinari, in modo improvvisato, dal corpo di Mickey Mouse, da quello dei suoi sostenitori e persecutori, dai più banali pezzi d’arredamento come anche da un albero, dalle nuvole o dal mare. Natura e comfort, primitività e tecnologia sono qui diventati una cosa sola; e davanti agli occhi della gente […] appare redentrice un’esistenza […] in cui un’automobile non pesa più di un cappello di paglia”.

Il corpo di Mickey rappresenta in questo senso la sintesi più compiuta tra il mondo della biologia e quello della tecnologia, anche perché le due componenti coesistono in esso in ogni momento, ed è quindi impossibile definire i confini che separano il topo dall’essere antropomorfo e dall’automa. “Il fascino della piccola e versatile creatura animata”, osserva Miriam Bratu Hansen in un denso capitolo dedicato proprio al Mickey Mouse di Benjamin e contenuto in Cinema and Experience (2011), riguarda essenzialmente “la sua condizione ibrida, in cui umano e animale, bidimensionale e tridimensionale, energie corporee e meccaniche si confondono”. Considerazioni simili sono state sviluppate anche in ambito psicoanalitico, a cominciare dall’analisi di Fritz Moellenhoff (1940) incentrata sui caratteri regressivi e polimorfici di Mickey, e in tempi più recenti hanno ispirato ulteriori letture sulla sua identità post-umana e su questioni di genere.

Riprendendo l’analisi di Ėjzenštejn, è possibile osservare come nel corpo di Mickey la tendenza a “uscire da sé” sia perfettamente incarnata, e la sua facoltà metamorfica risulti quindi pressoché invisibile o comunque meno evidente in termini di effetti, ma intrinseca in ogni suo movimento. Il corpo di Mickey è molto più compatto e aerodinamico di quello bidimensionale del suo immediato predecessore, Oswald the Lucky Rabbit, incline ad allungarsi, scomporsi e ricomporsi con effetti surreali talvolta esagerati, nonché di tutte le altre star animate dell’epoca: già nei cartoni del 1929 la sua rotondità dà l’impressione di una precisa consistenza gommosa che rende i suoi movimenti quasi tangibili, o in altre parole meno astratti e più vivi.

Wild Waves (1929)

Lo stesso Ėjzenštejn, dopo aver discusso in generale i fenomeni metamorfici tipici dei cartoni animati disneyani, aggiungeva che a restare impresso nella memoria era soprattutto “un dato esteriore […] che potrebbe sembrare puramente formale”, relativo proprio al corpo di Mickey: “Topolino sta cantando, le dita intrecciate. Le mani fanno da coro alla musica. Come se nei movimenti dei personaggi si materializzasse la seconda voce delle melodie” (il corto in questione è probabilmente Wild Waves, del 1929). E più avanti: “Con quanta grazia quelle quattro dita delle due mani, mentre Topolino suona la chitarra hawaiana, si trasformano all’improvviso in membra! […] Ormai non sono più due mani, ma due omini bianchi che danzano insieme sulle corde della chitarra” (Hawaiian Holiday, 1937).

Il ricordo più bello e commosso di Mickey, però, è forse quello che Maurice Sendak gli dedicò nel 1978, quando entrambi compirono 50 anni. Così diverso dalle piccole, scintillanti e inavvicinabili star del cinema che nei primi anni ‘30 sfilavano sugli schermi, Maurice ricorda che Mickey era per lui un fedele amico di strada, compagno di giochi e avventure alla pari: “Mio fratello, mia sorella e io masticavamo la sua gomma, ci spazzolavamo i denti con il suo spazzolino, giocavamo con lui a una varietà pressoché infinita di giochi e leggevamo delle sue avventure sulle strisce a fumetti e sui libri di storie per bambini. Soprattutto, il nostro compagno di strada era anche una star del cinema, e nell’oscurità delle sale, l’improvviso lampo del suo volto brillante, selvatico e gioioso – capace di irradiare una splendida luce dorata – mi colmava di un piacere inebriante e puro”.

Buona parte di questo piacere ricco e sensuale, aggiunge poi Sendak, “aveva a che fare con le sue bizzarre ma gratificanti proporzioni, la grande testa arrotondata che quelle orecchie nere discoidali allungavano ancora di più, i rossi pantaloncini gonfi che calzavano così aderenti al suo busto nero, le minuscole gambe infilate in un paio di scarpe gialle deliziosamente soffici.” E a proposito della sua collezione personale di oggetti di Mickey Mouse, rigorosamente limitata a quelli prodotti nel suo primo decennio di vita: “Una collezione di questo genere non può mai avere fine, né vi è alcun desiderio di portarla a termine”.

Alcuni oggetti della collezione disneyana di Maurice Sendak (via).


Note
Il saggio di Stephen Jay Gould citato è Mickey Mouse meets Konrad Lorenz, «Natural History», 88, 5, 1979; poi ristampato col titolo A Biological Homage to Mickey Mouse, in Id., The Panda’s Thumb, New York, W. W. Norton, 1980 [trad. it.: Omaggio di un biologo a Topolino, in Id., Il pollice del panda, Roma, Editori Riuniti, 1983; ed. più recente: Milano, il Saggiatore, 2012]. Le traduzioni italiane dei saggi di Ejzenštejn e Benjamin citati si trovano rispettivamente in Sergej M. Ejzenštejn, Walt Disney, a cura di Sergio Pomati, Milano, SE, 2004, e in Walter Benjamin, Mickey Mouse, a cura di Carlo Salzani, Genova, il Melangolo, 2014. L’edizione italiana della monografia di Miriam Bratu Hansen è Cinema & Experience. Le teorie di Kracauer, Benjamin e Adorno, Bologna, Johan & Levi, 2013. Il saggio di Fritz Moellenhoff citato è Remarks on the Popularity of Mickey Mouse, «American Imago», I (3), 1940. L’articolo di Maurice Sendak (Growing up with Mickey, «TV Guide Magazine», 11/11/1978) è stato ripubblicato di recente in Garry Upgar (a cura di), A Mickey Mouse Reader, Jackson, University Press of Mississippi, 2014, pp. 191-194; una traduzione italiana a cura del sottoscritto è disponibile sul blog bambinietopi.it. L’immagine di Noburō Ōfuji è tratta da Eiji Ōtsuka - Thomas Lamarre, An Unholy Alliance of Eisenstein and Disney: The Fascist Origins of Otaku Culture, «Mechademia», 8, 2013, pp. 251-277.