
Prima si udirono grida di rabbia. Affacciati alle finestre, i cittadini videro un piccolo corteo di bandiere. Molti di loro non conoscevano le ragioni di quella rabbia. Alcuni, impauriti dalle bandiere sconosciute, pensarono a un’invasione. Certi provarono a tendere le orecchie, ma i rumori dei megafoni cancellavano le parole. I più sereni rimasero infastiditi. E tanti altri non si accorsero di nulla.
Ma per strada, sotto le bandiere, alcuni passanti videro i volti di quelle persone. Non erano stranieri, e parlavano la loro stessa lingua. Allora si avvicinarono e cominciarono ad ascoltare. Raccontavano di un paese lontano, di un popolo massacrato, di una terra fatta deserto. Non era una guerra, ma qualcosa di molto più terribile. Non erano rimaste parole per descrivere quell’inferno.
Passarono i giorni, e la rabbia finì la sua voce. Allora il corteo divenne una marcia silenziosa, perché a parlare fu la tristezza. Furono spenti i megafoni, e per attirare l’attenzione le bandiere si riempirono di simboli e scritte. Tanti cittadini si unirono alla tristezza, e di giorno in giorno la marcia si ingrandì sempre più.
Ma intanto si moltiplicarono anche le bandiere.
«Dove stiamo andando?» si chiedevano in molti.
«Siamo sicuri di volere la stessa cosa?»
Parlavano la stessa lingua, eppure a volte non si capivano. E la loro tristezza, non era forse composta da mille tristezze diverse?
Nessuno sa dire in quale momento la marcia di disperazione si trasformò in una marcia di speranza. Fatto sta che a un certo punto si mescolarono i giovani e i vecchi, i poveri e i ricchi. Dalle scuole i bambini portarono i loro disegni, e soprattutto cominciarono a battere le mani.
Chi aveva una bandiera tentennò. Ma quando il battito divenne più forte, e il ritmo entrò nei cuori, nessuno poté fare a meno di battere le mani. Le bandiere vennero lasciate sulla strada, mentre la marcia proseguiva.
Ormai erano rimaste poche persone fuori dalla marcia. I bambini battevano le mani e sorridevano, come a dire: “Vieni anche tu!”. Ma loro se ne stavano in disparte, con le braccia tese e le spalle al muro. Dicevano che quello che succedeva laggiù non erano affari loro, o altre cose del genere, ma a parlare era soltanto la loro paura.
Avevano sentito dire che in testa alla marcia, davanti a tutti, c’era il pifferaio del mare, uno stregone che li avrebbe condotti fino all’oceano, fino alla morte.
Queste persone spaventate corsero a riprendere i loro bambini, e li ritrovarono proprio in testa alla marcia, davanti a tutti, nei campi oltre le porte della città. Non c’era nessun pifferaio, solo migliaia di bambini che battevano a ritmo le mani, prima da soli, poi tra di loro.
Alcuni erano venuti da un paese lontano. Parlavano un’altra lingua, ma erano come fratelli. I bambini provarono rabbia, tristezza e paura nel vedere i loro abiti strappati e le ferite che avevano su tutto il corpo. Sentivano il dolore pungere il cuore, ma più forte era la voglia di abbracciarsi, la speranza di guarire quelle ferite.
Soltanto allora la marcia si sarebbe fermata, o forse sarebbe diventata qualcosa di ancora più grande, come la vita dopo la morte. Come una goccia che insieme alle altre diventa l’oceano.
I bambini dicono che la marcia è iniziata molto tempo fa, ben prima del massacro e del deserto, e che non avrà mai fine. Noi confidiamo in loro, camminiamo insieme e continuiamo a battere le mani.