15/05/24

Sedotti e schiacciati. Appunti sul nuovo spot Apple


«[L’ebrezza del potere] Crescerà sempre e diventerà sempre più acuta. E sempre, in ogni momento, si proverà il brivido della vittoria, la sensazione di calpestare un nemico inerme. Se vuoi farti un quadro del futuro, immagina uno stivale che pesta un volto umano in eterno».
George Orwell, 1984

Provo a mettermi nei panni del team Apple che ha approvato la recente pubblicità dell’iPad Pro, senza prevedere le polemiche che avrebbe scatenato per il modo in cui rappresenta l’idea di compressione di molti strumenti in un unico dispositivo, ovvero mediante l’immagine di una moltitudine di oggetti schiacciati da un’enorme pressa meccanica.

Voglio credere alla buona fede di chi ha parlato di un “bersaglio mancato” (Tor Myhren, vicepresidente marketing di Apple), escludendo quindi la possibilità di una provocatoria strategia social mal governata. Questa immagine che per la maggior parte di noi è un’evidente immagine di distruzione, per alcuni deve rappresentare un’immagine di potenza tanto seducente da dissimulare molto bene il suo nucleo distruttivo.



Non si tratta forse della stessa seduzione che si percepisce in tante affermazioni sul potere della tecnologia, e in particolare dell’intelligenza artificiale? Chi scrive che l’IA “spazzerà via il 95% dei lavori umani” e cose analoghe lo fa spesso con una sorta di compiacimento sprezzante, di cui sembra del tutto inconsapevole. Ma anche nel linguaggio quotidiano possiamo trovare tracce di questa seduzione, insinuatasi in parole come “blastare”, “cringe” e “triggerare”: il pensiero sulle relazioni è compresso sul piano dei rapporti di potere, la complessità della vita e della creatività umana è ridotta al funzionamento di una macchina e il corpo è visto come un ingombro imbarazzante, come i vecchi strumenti che nella pubblicità finiscono schiacciati.

Sui social, le critiche più sentite hanno evocato la credenza negli tsukumogami, gli “spiriti delle cose” che nel folklore giapponese, col passare del tempo e grazie all’uso delle persone, animano gli utensili e gli oggetti antichi. Una sensibilità chiaramente agli antipodi rispetto alla mentalità che induce a vedere le stesse persone come risorse di “capitale umano”, merci senza valore, carne da macello o profili virtuali di dati da sfruttare, e che ci porta a svalutare il passato in nome di un presente concepito come una sequenza frenetica di innovazioni e upgrade.

Molti osservatori hanno sottolineato il paradosso per cui i paladini di un futuro anti-orwelliano (nel fortunato spot del Macintosh che nel 1984 fece la parodia all’omonimo romanzo) hanno finito per incarnare alla perfezione la distopia contro cui un tempo lottavano. È stato poi notato che i promotori del “Think different” non hanno trovato di meglio che copiare una pubblicità della LG del 2008, effettivamente identica. Potrebbe allora sorgere il sospetto che Apple si sia affidata a una intelligenza artificiale, e per questo motivo, avendo automatizzato alcune fasi del lavoro, non si sia resa conto del messaggio distruttivo che stava veicolando, né del palese plagio. I risultati pur sbalorditivi delle app di IA generativa text to video sembrano ancora lontani dal livello di dettaglio della pubblicità, ma non è da escludere l’ipotesi che Apple disponga già di strumenti più sofisticati. O dovremmo supporre che i membri del suo team ragionino come delle perfette intelligenze artificiali, capaci di produrre e simulare ma non di comprendere ciò che stanno facendo, e nemmeno di prevedere delle ovvie reazioni fondate sul senso comune?

Questa situazione mi ha ricordato una famosa scena del romanzo Momo di Michael Ende, nella quale per la prima volta un signore grigio getta la maschera di fronte alla bambina protagonista, svelando senza volerlo la natura diabolica del patto che le ha offerto.
Quando riprese a parlare fu come se lo facesse contro la propria volontà, come se le parole prorompessero autonome dalle sue labbra; e nel contempo il viso era più e più conturbato per il terrore di quello che gli stava capitando. E adesso, finalmente, Momo sentì la sua vera voce: «Dobbiamo rimanere sconosciuti», percepiva le parole che parevano giungere da lontano. «Nessuno deve sapere che esistiamo e cosa facciamo… Abbiamo cura che nessuno possa ricordarsi di noi… Soltanto finché rimaniamo sconosciuti possiamo occuparci dei nostri affari… affari difficili, travagliati, salassare agli uomini il tempo della vita – ora per ora, minuto per minuto, secondo per secondo – e i secondi così spillati… tutto il tempo che loro risparmiano è perduto per loro… noi glielo sgraffigniamo… noi lo immagazziniamo… ci è necessario… ne siamo bramosi… Ah, voi non sapete cosa significhi il vostro tempo! Ma noi, noi lo sappiamo bene e ve lo succhiamo fino all’ultimo respiro… e ce ne occorre di più, sempre di più… perché anche noi diventiamo sempre più numerosi… di più… sempre di più…»

L’anno scorso ho letto e discusso in classe questo capitolo in una quinta elementare, mentre quest’anno, in altre due quinte, ho cominciato ad affrontare l’educazione ai media proprio attraverso le pubblicità, a partire da quelle vintage di IBM e Microsoft. «Cosa ci vuol dire questa pubblicità?» è la domanda da cui siamo partiti, alla quale si potranno aggiungere poi altri interrogativi: «Cosa mi ricorda?», «Quali emozioni mi trasmette?», «Cosa mi comunica senza volerlo?». Ora, prima di esaminare due estratti animati da Wall-E (2008) e dal videoclip di Steve Cutts per Moby & The Void Pacific Choir (2016), mostrerò sicuramente questo spot Apple, che trovo molto istruttivo per la schiettezza con cui rivela la violenza del potere, spesso occultata dal potere della seduzione.