16/07/23

Scuola e intelligenze artificiali. Una riflessione


È stata pubblicata sul supplemento La Lettura del Corriere della Sera (nel numero 607 di domenica 16 luglio) un’intervista di Simone Di Biasio a Paolo Granata, professore di Cultura dei media all’Università di Toronto, a proposito di intelligenze artificiali. Mi congratulo con Simone Di Biasio, studioso che seguo e stimo da anni, per questa nuova collaborazione, anche se il mio pensiero è molto distante dalle opinioni espresse da Paolo Granata. Invito a leggere l’interessante intervista (qui la prima parte, qui la seconda), e voglio cogliere l’occasione per sviluppare una riflessione che avevo cominciato a elaborare qualche mese fa, con un appunto a un altro articolo pubblicato da Alessandro Carrera su Doppiozero.

Anzitutto devo segnalare per l’ennesima volta la tendenza ad affrontare il discorso sull’AI nella scuola in modo astratto, ovvero senza considerare la realtà concreta dei diversi contesti in cui questa tecnologia può essere o meno adoperata. Spesso a parlare sono professori universitari, quasi sempre nordamericani, ma l’università rappresenta solo una piccola parte della realtà della scuola, e l’AI all’università, per fare solo un esempio, è qualcosa di molto diverso dall’AI alla scuola primaria, su cui peraltro già fioccano corsi di formazione e proposte di piattaforme che assecondano la sciocca visione del digitale come unica frontiera dell’innovazione scolastica. È curiosa questa assenza di contesto in un articolo che sottolinea proprio l’importanza del contesto nella situazione didattica. Curiosa ma non sorprendente, perché qui si tratta di un contesto virtuale e simulato, creato dalla macchina e incentrato su di essa, che a lungo andare, se integrato nella vita scolastica, non può che dissolvere il contesto reale della scuola, che trae vita dalla relazione fra studenti e insegnanti e trae forza dalla prossimità e autenticità di questa relazione.

Alcune domande poste da Di Biasio provano a stimolare delle riflessioni critiche, che vengono però liquidate in modo sommario, forse a causa del poco spazio a disposizione. «Ogni nuova tecnologia estende facoltà umane, creando un nuovo ambiente» è un’affermazione troppo generica che invita a pensare a qualsiasi tecnologia come a un potenziamento da accogliere senza indugi, rifiutando un approccio critico. Eppure sono molte le tecnologie di cui nel corso della storia l’uomo ha scelto di non servirsi o di farlo con limitazioni, dopo aver valutato i rischi del loro utilizzo.

L’analogia con la calcolatrice è completamente fuori scala, e quella con l’invenzione della scrittura è impropria; per certi versi mi viene da pensare che valga anzi al contrario, perché qui si tratta di esternalizzare facoltà mentali a delle macchine e smaterializzare così completamente il nostro rapporto col sapere. Granata parla già di studenti universitari che invece di scrivere i propri testi li fanno produrre a ChatGPT, e si limitano poi a valutarne lo stile e altre caratteristiche. Come già avevo scritto tempo fa, diventare revisori della macchina non mi sembra un modo intelligente di sviluppare le proprie facoltà critiche e le proprie competenze di scrittura. Per chi deve ancora consolidare tali facoltà, anzi, mi sembra il modo migliore per provocarne una rapida atrofia.

Ma l’opinione che mi preme più mettere in discussione riguarda il presunto ritorno al dialogo e all’oralità favorito da queste tecnologie. Questa – per me che credo in una scuola fondata proprio sul dialogo, sulla conversazione e sulla lettura, ovvero sul sapere e sulla relazione umana – è pura mistificazione, perché lo scenario allettante che dipinge è ancora una volta una funzione della macchina. Secondo questa prospettiva, come la macchina crea il contesto, così la macchina istituisce il dialogo, pone le condizioni per il suo verificarsi e scalza perciò l’insegnante dal suo ruolo. In una risposta di Granata mi pare di scorgere questo ribaltamento, benché egli cerchi di rassicurare i lettori su una sostituzione dell’AI all’uomo definita improbabile, e di cui tuttavia altri professori parlano ormai esplicitamente: l’insegnante artificiale è il centro dell’aula o di ciò che di essa rimarrà, la fonte primaria dell’istruzione, mentre l’insegnante umano ha un ruolo gregario di operatore e assistente, principalmente rivolto agli studenti con difficoltà di apprendimento.

Dovremmo forse ringraziare l’AI per rendere possibile ciò che è già possibile e straordinario nell’esperienza umana, come l’incontro e il dialogo con l’altro, e che anzi le nuove tecnologie inibiscono e rendono più difficoltoso (come documenta molto bene Sherry Turkle nel libro La conversazione necessaria)? Questo ragionamento rischia di provocare in noi una forma di asservimento totale, perché ci induce a credere di aver bisogno di questo o di quel nuovo dispositivo (ovviamente programmato a rapida obsolescenza) per compiere azioni che attengono alla nostra umanità. Una forma mentis di questo genere sta già mettendo radici nella formazione di molti insegnanti, giovani e meno giovani, che inseguono il mito del docente smart. Insegnanti che ad esempio si vedono costretti ad annullare una lezione per via di un problema alla corrente elettrica, perché senza dispositivi tecnologici non si sentono in grado di svolgere il proprio lavoro (una storia vera che ho letto di recente, made in U.S.A., alla quale ne potrei aggiungere molte altre meno eclatanti ma analoghe).

Allora, quando leggo elogi di questo tenore – «Come l’AI espande l’intelligenza, noi espanderemo ciò che ci rende umani, riscoprendo modelli di insegnamento abbandonati per inseguire una burocrazia che possiamo lasciare alle macchine» – tendo a pormi qualche interrogativo in più, diffidando da ciò che mi sembra un’apologia assolutistica, retorica e direi propagandistica dell’AI, un approccio molto pericoloso da adottare nei confronti di una tecnologia di cui ancora sappiamo poco e niente, e che sta già destabilizzando le vite di molte persone, ben al di là di ciò che fino a poco tempo fa ritenevamo plausibile.

Per entrare nel merito voglio concentrarmi sul paragone col dialogo socratico, proposto da Granata. Paragonare una chat con l’AI (ovvero un modello di linguaggio simulato e probabilistico) alla maieutica socratica significa per me avere dimenticato l’inesauribile profondità della conversazione umana, il suo costante nutrirsi della presenza dell’altro e della consapevolezza di una condivisione reale per aprirsi all’imprevisto, al non detto, al linguaggio del corpo, a un gesto di affetto… Dimenticare il fatto che ogni parola, ogni gesto, nascono nell’incontro del nostro corpo con altri corpi, sono irripetibili e non sarebbero mai le stesse parole, gli stessi gesti, di fronte a un’altra persona o in un’altra circostanza. Una macchina può imitare solo l’aspetto informatizzabile della comunicazione, ovvero una minima parte di quella che in realtà è un’esperienza molto più complessa. Non è in grado di provare emozioni, né di interrogarsi sul significato di un’espressione: tutto ciò che può fornire è un’illusione di conversazione. Dimenticare questa differenza fra un dialogo vivo e un surrogato automatizzato, virtuale, significa per me l’oblio dell’umano, venduto come il suo futuro e il suo potenziamento, esattamente come in una perfetta distopia.

Provo a immaginare degli studenti universitari che nel prossimo futuro conversano con una AI a cui è stata data «in pasto» l’opera di un autore, come spiega Granata parlando del suo progetto su Marshall McLuhan. È possibile che molti di loro non abbiano mai letto gli scritti di questo autore, quindi non si siano mai confrontati con la complessità del suo linguaggio, né abbiano provato a interiorizzare il suo pensiero o a sottoporlo a critiche. Tutto ciò a cui possono ambire è una chat che funziona un po’ come un oracolo, dalla potenza enorme ma vincolata alla procedura del “botta e risposta”. Fatico a immaginare come una simile procedura possa essere definita dialogo, ma soprattutto fatico a vedere in questa procedura il rapporto vitale che nasce dal dialogo umano e da un’autentica sete di conoscenza. Mi domando anche, se questi studenti sono abituati dal principio del loro percorso di studi a tale genere di conversazioni automatizzate, da quale sorgente possa nascere in loro l’interesse per il pensiero di una persona morta decine, centinaia o migliaia di anni fa. In principio è sicuramente la curiosità per il nuovo a indurre lo studente a porre domande e a leggere le risposte sullo schermo; in seguito, quando questa curiosità iniziale verrà meno, l’interazione con la macchina sarà possibile solo nel segno dell’engagement compulsivo e dell’intrattenimento, come avviene già sui social e sulle app digitali.

Di queste tecnologie applicate all’istruzione si dice spesso che favoriscono la personalizzazione didattica e il coinvolgimento. Al contrario, mi sembra più corretto affermare che sottraggono lo studente al suo naturale contesto sociale e relazionale, trasformandolo in un utente soggiogato da stimoli superficiali, che oltretutto ne depotenziano la concentrazione e la capacità riflessiva. Ho in mente l’immagine dei bambini che a scuola mi capita a volte di vedere imbambolati di fronte alla LIM, perché alcuni insegnanti permettono loro di trascorrere l’intervallo a guardare spezzoni di partite di calcio, cartoni animati o video musicali, ma anche la difficoltà che gli alunni incontrano nell’approfondire le proprie ricerche al di là dell’immediatezza dei motori di ricerca e del copia-incolla. Confondere queste forme di accalappiamento e di interazione superficiale col coinvolgimento profondo che è in grado di suscitare un buon insegnante mi sembra uno degli inganni più subdoli che circolano sul tema dell’innovazione scolastica.

Sono anch’io convinto che una grande potenzialità della nostra epoca consista nella riscoperta della profondità del dialogo, delle relazioni interpersonali e di ciò che ci rende umani, ma credo che questa potenzialità potrà svilupparsi solo se saremo in grado di porre dei limiti a tecnologie sempre più invasive e disumanizzanti, liberandoci della nostra assuefazione nei loro confronti e dunque riappropriandoci anche della facoltà di rifiutare i loro doni accattivanti. «Quanto più riteniamo indispensabili le cose che in realtà non servono, tanto più sprechiamo le nostre energie» scrisse Rabindranath Tagore in uno dei suoi splendidi discorsi sulla scuola, che già all’inizio del secolo scorso mettevano in luce le contraddizioni di un modello occidentale di progresso orientato a uno sviluppo illimitato e distruttivo. “Accattivante” è qualcosa che ispira simpatia, fiducia, buona disposizione d’animo, ma “accattivare” significa ridurre in schiavitù. Di quante cose superflue che riteniamo indispensabili al nostro futuro stiamo in realtà diventando schiavi?


[Immagine tratta dal film Momo alla conquista del tempo (2001) di Enzo d’Alò, dal romanzo di Michael Ende]