30/06/23

Antonio Faeti. Nel castello delle belle avvelenate


Durante la prima presentazione online della collana “Babalibri Educazioni”, lo scorso autunno, i curatori Francesco Cappa e Martino Negri hanno illustrato i caratteri di un interessante progetto di recupero e riscoperta di testi che rappresentano delle pietre miliari della saggistica pedagogica, da molti anni irreperibili nelle librerie perché fuori catalogo, ai quali poter affiancare nel prossimo futuro altre proposte di titoli inediti. Due storiche collane di Emme Edizioni come “Il Puntoemme” (1971-1985) e “L’asino d’oro” (1979-1988), dedicate rispettivamente ai mondi della scuola e della letteratura infantile, sono il principale riferimento genealogico di questo progetto, che riallacciandosi a un’epoca di grande fermento culturale mira a stimolare nuove occasioni di riflessione sull’infanzia e sulle pratiche educative.

È importante osservare che la collana non si rivolge esclusivamente a un pubblico accademico, anzi mira a suscitare l’interesse di insegnanti, educatori, genitori e appassionati, ed è altrettanto importante considerare quanto il linguaggio dei suoi libri solleciti una simile apertura, molto gradita e salutare in anni in cui il pensiero pedagogico è reso sempre più autoreferenziale da un gergo specialistico ricco di sigle, formule e tecnicismi ma povero di realtà. Nell’introduzione a La scoperta come apprendimento, titolo che assieme a Forse un drago nascerà di Giuliano Scabia ha inaugurato la collana, John Foster osserva: «Ho cercato di scrivere questa relazione in termini semplici e non tecnici. È un libro descrittivo ma, spero, anche obiettivo». Richiamandosi a questo passaggio, Martino Negri ha posto l’accento sull’idea di una collezione di libri che propongono esperienze ma non sono da intendersi come ricettari, libri che descrivono senza la presunzione di prescrivere o addestrare, che aprono spazi di riflessione e ricerca invece di definire schemi di facile consumo e riproduzione.

I libri di Antonio Faeti, l’autore del quarto volume della collana che fu maestro di scuola elementare e divenne il primo professore ordinario di Letteratura per l’infanzia in Italia, sono per queste ragioni doppiamente esemplari, sia perché la loro importanza storica è tale da farne dei classici, sia in quanto opere anomale e inesauribili per la loro peculiarità, in grado di appassionare anche a distanza di decenni qualsiasi lettore che vi dedichi tempo e attenzione. Nella nuova appendice a Dacci questo veleno!, apparso nel 1980 nella collana “L’asino d’oro” di Emme Edizioni e ora accompagnato da saggi di Emilio Varrà e Giorgia Grilli, la ricchezza dei testi di Faeti è colta proprio nella loro evidente estraneità agli odierni standard accademici. «Gli studenti universitari a cui li ripropongo si sentono disorientati di fronte a questi scritti che trovano impossibili da ridurre a schemi, a mappe concettuali, a Power-Point riassuntivi», nota Grilli, riconoscendo che si tratta di libri tanto più preziosi quali esempi di percorsi «fuori dai binari», sostenuti da vastissime conoscenze e da audaci intuizioni.


La scelta di proporre ai propri alunni di quinta elementare un confronto col linguaggio del fumetto, nell’anno scolastico 1971-72, portò lo stesso Faeti a intraprendere una vera e propria «avventura pedagogica», per dirla con Scabia, che negli anni successivi costituì il nucleo di una delle sue più affascinanti ricerche sull’immaginario infantile. La prima scoperta di questo percorso è una curiosa questione di genere, legata alle differenti abitudini di lettura. Mentre la maggiore dimestichezza dei maschi col linguaggio dei comics dà quasi sempre luogo a tentativi di imitazione delle serie più amate, ben fatti ma poco significativi allo sguardo dell’educatore, sono soprattutto le bambine a sfruttare questo strumento espressivo al di là delle sue convenzioni tecniche e narrative. Per il maestro, l’impressione è che il linguaggio del fumetto consenta loro di parlare finalmente di sé in modo spregiudicato, come mai avevano fatto nei più canonici temi scolastici o nei testi liberi.

Emerge infatti, da questo incontro fra parole e immagini, una zona dell’immaginario infantile dove le fantasie assumono tinte forti e perturbanti, un territorio che mescola fantasmi all’apparenza eterogenei, riconducibili alle fiabe di magia come ai romanzi rosa e polizieschi, oltre che ai fumetti e ai feuilletons. Di fronte a storie di avvelenamenti, vendette, suicidi, con giovani protagoniste tipicamente costrette a sposare uomini anziani o nani che tentano poi di assassinare, lo sguardo di Faeti maestro è sorpreso e cauto, desideroso di comprendere meglio ma fermo nella consapevolezza di non poter interpretare certi indizi alla luce di una lettura diretta. Lo soccorre però un pensiero di Rodari, dalla Grammatica della fantasia: «Quando si ha a che fare con i bambini, e si vuol capire quello che fanno e quello che dicono, la pedagogia non basta e la psicologia non arriva a dare una rappresentazione totale delle loro manifestazioni. Bisogna studiare altre cose, appropriarsi di altri strumenti di analisi e misura. Anche farlo da autodidatti non guasta niente. Anzi».

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