21/10/22

Un diario dalla periferia profonda


Un bambino ricorda che alla fine della via, nell’erba alta di un terreno sfitto, viveva un bufalo d’acqua, un animale grande e mansueto che si svegliava solo quando qualcuno si fermava per chiedergli un consiglio. Allora, dopo essersi avvicinato lentamente, il bufalo si limitava a sollevare uno zoccolo per indicare la strada giusta, che una volta percorsa finiva sempre per rivelare delle sorprese. Come faceva a saperlo? è la domanda che ogni volta accompagnava nello stupore il bambino e i suoi amici, ma un’altra domanda, posta da un alunno non appena finisco di leggere la storia, ci offre una chiave preziosa per rileggerla in profondità: Perché i bambini smettono di andare a trovarlo?

Il narratore dice proprio così, ma non dà spiegazioni, e aggiunge che probabilmente il bufalo se n’era andato poco tempo dopo, perché quello che riuscivamo a vedere era solo l’erba alta. Una domanda irrisolta che in effetti ne contiene molte altre, e che ci porta a riflettere sul fragile incanto di questo oracolo muto. Più ancora che di magia, mi accorgo allora che questa storia parla di fiducia, di legami importanti ma precari con figure di riferimento in grado di essere guide autorevoli, e soprattutto di crescita, di tutto ciò che col passare del tempo rischia di perdersi senza la cura dell’abitudine e del ricordo. Quando ero bambino, non a caso, sono le prime parole della storia. Ma nell’infanzia lontana di questa periferia australiana, dove la memoria dell’autore accoglie in sé la più fervida immaginazione, credere alla magia significa proprio avere fiducia nel mondo, non c’è contraddizione fra realtà e fantasia, e il segreto per trovare ciò che si sta cercando potrebbe essere un piccolo gesto che precede il viaggio vero e proprio: soffermarsi sulla soglia, confidare nell’attesa. A questo punto non sono l’unico a pensare che il bambino, anzi il ragazzo, dev’essersi ingannato, perché spesso le cose scompaiono nel momento in cui non siamo più capaci di riconoscerle, o disposti a concedere loro il nostro tempo. Già distratto altrove coi suoi compagni, nell’attimo di un’occhiata e senza alcuna domanda con sé, come avrebbe potuto scorgere nell’erba sempre più alta l’ombra dell’animale addormentato?



Comincia così la nostra seconda esperienza di lettura in classe, il secondo viaggio nei quindici minuti settimanali che di mercoledì in mercoledì, fra le lezioni della mattina e l’ora della mensa, sono ormai diventati un appuntamento prezioso. Nel primo quadrimestre abbiamo avviato l’esperimento con La conferenza degli uccelli di Peter Sís, ora è il turno delle Piccole storie di periferia di Shaun Tan, una raccolta di quindici brevi racconti illustrati nei quali il connubio di parole e immagini dà vita a una sorprendente varietà di soluzioni espressive, calibrate per ogni storia su stili e registri diversi. Per conservare alcune tracce di questo percorso sulle quali poter tornare anche a distanza di tempo, e per giocare a nostra volta con la generosità di un linguaggio che concede ampio spazio al respiro del non detto e alla ricerca di interpretazioni, connessioni e rivisitazioni, propongo un diario di lettura collettivo dove raccogliere commenti, parole-chiave, citazioni, disegni e quant’altro: due facciate per ciascun racconto, più la copertina che faremo alla fine, per un totale di sedici pagine di dimensioni poco inferiori al formato del libro, ricavate da buste per spedizioni (esattamente come lo sfondo dell’indice del volume, dove ogni storia è un francobollo).

Alcuni racconti si prestano molto bene ad attività di imitazione e rielaborazione, come il collage di bigliettini con cui proviamo a riassumere Pioggia distante ricreandone lo stile grafico, o i missili colorati con cui ridisegniamo il panorama di All’erta ma non allarmati, una splendida fantasia di pace che arriviamo a leggere proprio mentre attorno a noi infiamma il dibattito sulla guerra e sulla corsa agli armamenti. Di altri racconti annotiamo soprattutto le impressioni che hanno suscitato, scritte a caldo durante la discussione su foglietti che incolliamo poi una volta tornati dalla mensa, nei primi minuti dell’intervallo. È importante che queste scritture registrino il movimento del pensiero, il nascere spontaneo dell’idea, più che la sua formalizzazione in bella copia, quindi sono ben accetti anche errori di ortografia, anacoluti e sbavature. Ed è proprio l’accostamento materiale di varie scritture a rendere più pregnante ciascun contributo nel suo rapporto con gli altri, in un gioco di combinazioni e richiami che prova a conservare per iscritto ciò che nel dialogo orale è una risonanza volatile, presto dispersa al suono della campanella.



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