09/12/21

Tana Hoban. Nel silenzio dei libri, lo sguardo dei bambini


Devo ammettere che fino a poco tempo fa il nome di Tana Hoban non mi diceva nulla, eppure sfogliando i suoi libri per la prima volta ho provato una netta sensazione di déjà vu, quasi fossi incappato in una serie di figure riemerse intatte dai miei primissimi anni di vita. Possibile che le avessi già incontrate, finendo per scordarle? La scarsa considerazione di cui ha goduto finora la sua opera in Italia mi induce a dubitarne. Tana Hoban (1917-2006) è stata un’artista e fotografa statunitense, nota soprattutto nel suo Paese natale e in Francia (dove si trasferì nel 1983) per la sua produzione di volumi per bambini di età prescolare, che dagli anni ’70 hanno fatto la storia del genere. Fino a pochi mesi fa tutti i suoi libri risultavano inediti in Italia, ma nonostante ciò, trattandosi di opere seminali, la loro influenza estetica si può indovinare in una grande varietà di titoli, dalle prime letture per neonati agli abbecedari illustrati, ed è in particolare evidente nel campo degli albi fotografici senza parole, ascrivibili alla più ampia famiglia dei “libri muti”, più comunemente detti silent books.
 
«Il discorso sulle parentele profonde tra le forme, o sulla paziente modulazione dello sguardo che rende sempre più capaci di cogliere la molteplicità del mondo,» osserva Marcella Terrusi in Meraviglie mute (Carocci 2017), «è esplorato dall’artista in libri fotografici dedicati a forme e colori che invitano alla frequentazione della poesia delle immagini». Sfogliando i libri di Hoban per la prima volta, insomma, il fattore dello straniante riconoscimento potrebbe essere stato il ricordo di uno sguardo affine già incontrato altrove, più che le sue figure. Ma sospetto che questa sia solo una piccola parte della risposta alla domanda iniziale, e soltanto un indizio delle ragioni per cui queste opere che ci raggiungono dal passato somigliano a reperti tanto affascinanti quanto enigmatici.


A quindici anni dalla sua morte, la riscoperta italiana di Tana Hoban è cominciata quest’anno con l’uscita di tre libri destinati a bambini da zero a tre anni, editi da Camelozampa (Giallo, rosso, blu e Che cos’è?) ed Editoriale Scienza (Bianco e nero), ed è proseguita con l’inaugurazione di una mostra ospitata presso la libreria indipendente Mutty di Castiglione delle Stiviere (Mantova): Guardare è un gioco. I libri fotografici di Tana Hoban (22 ottobre 2021 – 22 gennaio 2022). Curata da Giulia Giazzoli e Élisabeth Lortic, in un allestimento a cura di Paolo Cremonesi, l’esposizione comprende una raccolta di opere fotografiche e la sua intera produzione di libri, proveniente dall’archivio della casa editrice Les Trois Ourses e conservata a Parigi presso lo CNAP (Centre National des Arts Plastiques). Il loro numero è davvero impressionante: in poco più di trent’anni, come dimostra l’appendice bibliografica inclusa nel catalogo (esaustiva ma non integrale), Hoban ha dato alle stampe una ricchissima collezione di titoli, esplorando da varie prospettive e spesso fondendo tra loro i mondi delle forme, dei concetti e dei colori, e più raramente tentando soluzioni narrative più convenzionali – come nelle favole fotografiche di animali Where is it? (1974) e One Little Kitten (1979) –, ma sempre ispirate a una poetica della visione infantile che già nelle prime opere, oggi come allora, colpisce per la sua estrema coerenza.

Poco più che ventenne, dopo una formazione artistica e alcune esperienze di lavoro come grafica e illustratrice, Tana Hoban sposò il fotografo Edward E. Gallob e con lui aprì uno studio a Philadelphia, specializzandosi in soggetti infantili per la pubblicità. Questa carriera avviata da autodidatta le valse presto riconoscimenti importanti, a cominciare dall’invito a una prestigiosa mostra collettiva ospitata al MoMA nel 1949 a cura di Edward Steichen, che assieme alla figlia Mary Steichen Calderone fu autore di uno storico albo fotografico per bambini, considerato un capostipite del genere: The First Picture Book. Everyday Things for Babies (1930). E due decenni dopo, facendo tesoro di uno sguardo sull’infanzia perfezionato in molti anni di lavoro, il passo successivo per Hoban fu la messa a punto di uno sguardo per l’infanzia e dell’infanzia veicolato proprio attraverso i libri, che coincise col suo ingresso nel mondo dell’editoria per bambini.

L’originalità dell’approccio di Hoban risalta fin dall’opera d’esordio, Shapes and Things (1970), che distilla in bianco e nero una radiografia fantasmatica del quotidiano, tra giocattoli, utensili domestici e cianfrusaglie di ogni genere che emergono dallo sfondo scuro come apparizioni luminose. Lo strano effetto deriva da una scelta precisa: gli oggetti non sono stati fotografati, ma appoggiati direttamente sull’emulsione e quindi esposti alla luce per ottenere l’impressione sulla carta fotografica, secondo la tecnica che Man Ray battezzò rayografia. Fotogrammi come ombre di luce, dunque, creati senza l’utilizzo della macchina fotografica, e in un certo senso originatisi da sé. Mentre l’immagine cessa di essere uno scatto da inseguire e catturare, lo sguardo dell’infanzia si rivela come percezione della prossimità di ogni cosa e visione che nasce e si offre spontaneamente, agli occhi del fotografo come a quelli del lettore.

Tana Hoban, Shapes and Things (1970)

Tana Hoban, Look Again! (1971)

Sarebbe però riduttivo considerare l’origine di questo sguardo solo in rapporto a una questione di tecnica artistica, e la maestria di Hoban, in effetti, sta nell’averlo saputo riproporre e reinventare anche nei libri successivi, mediante il ricorso quasi esclusivo alla fotocamera – salvo rare eccezioni come A, B, See! (1982), che riprende la rayografia – e a particolari modalità di presentazione delle immagini. Look Again! (1971) sembrerebbe a prima vista concepito addirittura in antitesi a Shapes and Things: non più forme ben esposte nate senza il concorso di una macchina, ma una piccola inquadratura ritagliata che di volta in volta indirizza l’attenzione su un dettaglio, prima che il giro di pagina sveli l’immagine completa. Il lettore osserva come dal buco della serratura, eppure ignora ciò che sta guardando: non spia oggetti di cui impadronirsi, ma esplora forme che lo interrogano e lo chiamano a sé. E con la stessa straniante naturalezza dei rayogrammi, le immagini che appaiono a pagina intera dopo essere state oggetto di un’osservazione parziale sono visioni che suscitano meraviglia, proprio perché sottratte a una fruizione immediata. L’espediente tecnico che implica un’analogia tra il bambino e il fotografo chiarisce così una caratteristica fondamentale dei libri di Hoban: posta una limitazione, l’esperienza della lettura ne fa il mezzo di ulteriori scoperte che la trascendono.

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