02/12/21

La stagione dei sogni. Un ricordo di Taniuchi Rokurō


Per venticinque anni, dal 1956 al 1981, i lettori del settimanale giapponese Shūkan Shinchō hanno ammirato le splendide copertine di Taniuchi Rokurō (1921-1981), che nel corso della sua vita ne realizzò più di 1300, tutte ispirate al mondo dell’infanzia, provviste di un titolo e corredate da un breve testo evocativo. Kawabata Yasunari ha definito Taniuchi Rokurō «il Takehisa Yumeji dell’era Shōwa», celebrando la sua vocazione di illustratore e poeta, anzi poeta d’immagini. Per il centenario della nascita di “Roku” (come si firmava sempre a margine delle sue opere) vorrei azzardare un paragone che mi sembra ancora più calzante, accostandolo a un altro autore della generazione che lo precedette, Miyazawa Kenji (1896-1933), oggi considerato il più importante esponente della letteratura per l’infanzia giapponese del Novecento.

Uno degli aspetti più ammirevoli di Una notte sul treno della Via Lattea (1934), il capolavoro postumo di Kenji che narra il viaggio oltremondano di due bambini lungo una ferrovia galattica, è l’armoniosa sintesi di due forme di meraviglia: una meraviglia sublime, che scaturisce dal panorama delle sconfinate praterie celesti, oltre che dalle visioni che si susseguono di stazione in stazione, e una meraviglia intima, che si origina invece dall’osservazione di cose piccole, vicine e quotidiane. Già il breve capitolo iniziale fornisce un chiaro esempio di questa sintesi: a scuola, durante una lezione di scienze, il maestro mostra agli alunni una mappa e un modellino della galassia, invitandoli a immaginare di trovarsi in mezzo alle stelle, nel vuoto siderale. Dai banchi della scuola elementare di un villaggio senza nome, nell’ultima ora di lezione di un pomeriggio come tanti, lo studio di questi materiali didattici si tramuta in una vertiginosa contemplazione cosmica. Per bocca del maestro, che spiega che i granelli di sabbia del modellino sono miriadi di stelle, Kenji evoca la connessione di microcosmo e macrocosmo, e con l’immagine del bambino circondato dalle stelle propone una piccola ma significativa anticipazione del seguito della storia. Mentre gli alunni immaginano di trovarsi lontanissimi dal loro mondo quotidiano, così, con questa mise en abyme l’autore racchiude tra le pareti di un’aula e le lenti di un modellino l’incanto del viaggio che prenderà il via poche pagine più avanti.

La distanza sublime e l’intima prossimità sono le dimensioni proprie di un’infanzia al contempo remota e ritrovata, meravigliosa e malinconica, al cui fondo alberga un’irriducibile ambivalenza. Il treno che nella notte diviene traghetto per l’altro mondo è un trenino giocattolo a grandezza naturale, che prende vita proprio come nei giochi e nei sogni di un bambino. A bordo del treno Giovanni può accompagnare il suo amico Campanella nelle lontananze più impensabili, restandogli vicino il più a lungo possibile prima dell’inevitabile addio. Kenji si sofferma in varie occasioni a descrivere i due bambini seduti sui sedili nel vagone semideserto, mentre dal finestrino osservano il greto del fiume celeste e le tenebre del cosmo, illuminate a tratti da luci e segnali variopinti. Ci sono figure cangianti, geometriche e fosforescenti che somigliano a dolci o bottoni, e anche un’immensa croce che da lontano «appariva ormai così piccola che la si sarebbe potuta appendere al petto come una medaglietta». Mi piace pensare che Kenji abbia voluto alludere con questa immagine al cuore del bambino, ovvero alla vastità del suo mondo interiore, e credo che in un altro passo si sia spinto ancora più in là, riconoscendo nell’intero universo le pulsazioni e il respiro dell’infanzia: «Col cuore che gli batteva forte, Giovanni scrollò vigorosamente la testa. Subito tutti quei meravigliosi segnali che brillavano di azzurro, arancione e di tanti colori, si misero a palpitare e tremare come se respirassero».

Miyazawa Kenji illustrato da Taniuchi Rokurō: Yuki watari / Icho no mi (“Al di là della neve / I frutti del Ginkgo”, 1971).



Nelle illustrazioni di Taniuchi Rokurō – che tra l’altro illustrò diversi racconti di Miyazawa Kenji, nonché la sua prima raccolta in lingua inglese (Winds and Wildcat Places, 1967) – ritrovo lo stesso sentimento dell’infanzia che anima le scene più meravigliose e malinconiche di questo viaggio nello spazio, espresso con un’intensità e una limpidezza che senza esitazioni definirei prodigiose. Come già accennato, Taniuchi è stato autore di più di un migliaio di copertine realizzate a ritmo continuo, alle quali sono da aggiungere diverse altre opere, e in particolare alcuni albi illustrati di rara raffinatezza, che influenzarono anche i lavori del nipote Taniuchi Kota (1947-2019). I suoi dipinti compongono una delle collezioni più coerenti e ispirate che conosca, ma ancora più sorprendente credo sia l’impressione di unicità che si percepisce di fronte a ciascuno di essi. Che sia per l’equilibrio della composizione, l’armonia dei colori o la bellezza di ogni soggetto, o ancora per altre qualità impalpabili, nella poetica di Taniuchi un’illustrazione è un frammento sufficiente a rappresentare la totalità di un mondo nella sua più intima verità.

Ecco una galleria di scene, o meglio paesaggi d’infanzia, nei quali i bambini sono presenze discrete ma essenziali. È un mondo silenzioso e vasto di campi che si perdono all’orizzonte e di prospettive aperte sull’ignoto, con alberi mossi dal vento, rotaie, case di legno, scorci domestici, piccoli giocattoli e vetri di bottiglie o finestre che riflettono e moltiplicano fantasticherie di ogni genere. Impressionanti le tonalità con cui è reso l’azzurro del cielo, vero protagonista di numerose immagini, e particolarmente incantevoli i paesaggi di neve e le illustrazioni notturne, punteggiate di volta in volta dalle stelle o dalle luci delle lanterne, oppure illuminate dal bagliore di un proiettore che raccoglie attorno a sé un gruppetto di spettatori assorti. Una scena che ricorda da vicino la magia di una fiaba invernale di Miyazawa Kenji, Al di là della neve, nella quale un bambino e la sua sorellina sono invitati da una volpe alla “Festa della Lanterna Magica”, e assieme ai volpacchiotti di una scuola assistono alle proiezioni sul grande schermo.
Konsaburō, coff coff, si schiarì la voce con dei colpetti di tosse, andò accanto allo schermo e fece un profondo inchino. Tutti tacquero.
«È una bellissima notte. La luna sembra proprio un grosso piatto di madreperla. Le stelle brillano come gocce di rugiada ghiacciate nei campi. Bene, iniziamo il nostro Festival della Lanterna Magica! Guardate con attenzione, con gli occhi ben aperti e senza chiuderli mai neppure per un momento, nemmeno per starnutire. Oggi abbiamo due ospiti importanti, quindi vi prego di fare silenzio e di non lanciare assolutamente ricci verso di loro. Iniziamo!» (Miyazawa Kenji, Al di là della neve, in Le stelle gemelle e altri racconti, Atmosphere 2018, p. 32)



La trasfigurazione fiabesca non può ingannare, anzi rende ancora più trasparente il ricordo e la sua traboccante valenza affettiva. Come nel caso di Ihatov, il paese fantastico in cui Kenji ha trasposto i suoi sogni e le sue esperienze infantili, si tratta senz’altro del mondo rurale che Roku ha conosciuto da bambino nell’area di Setagaya (oggi una delle zone residenziali più costose e popolate di Tokyo), rievocato nei difficili anni del dopoguerra e della ripresa economica con l’inevitabile carico di nostalgia proprio di un’età lontana. Ma in queste illustrazioni non si percepisce tristezza o rimpianto. Più che un paradiso perduto, si direbbe un mondo restituito con l’arte all’infanzia di ognuno e di tutti, un mondo di cui i bambini custodiscono e trasmettono il segreto. Al di là del ricordo di un tempo passato, forse, è allora possibile pensare a questi paesaggi come alle tante manifestazioni di un medesimo luogo dell’anima.

Un bambino e la sua sorella maggiore sono le figure più ricorrenti. Molto rari gli adulti, che il più delle volte, come il capostazione che attende l’arrivo del treno, somigliano a emanazioni delle fantasie infantili sotto forma di guide o messaggeri. Quando i due bambini sono insieme, i loro gesti e sguardi si accordano in un commovente equilibrio, distinguendosi e completandosi a vicenda. Talvolta sono assieme ad altri bambini, altre volte da soli. Spesso sono ritratti di schiena mentre contemplano lo scenario, oppure seguono processioni minuscole di animali, automobili o spiriti che hanno intravisto nell’aria, creature di un mondo fitto di soglie e in perenne trasformazione. In alcune delle illustrazioni più toccanti è anche palpabile un lieve senso di solitudine, e soprattutto di noia, da cui l’incanto animista si diffonde ancora più delicato. Bambini febbricitanti o assonnati a letto, accuditi dalla sorella o in balia delle più strane visioni, bambini che osservano impazienti il movimento del pendolo fino a vederlo assumere le loro stesse sembianze, o ancora intenti a disegnare con le dita sui vetri appannati: un gesto caratteristico della poetica di Taniuchi e dell’infanzia di cui credo nessun altro artista abbia saputo distillare allo stesso modo la sospensione e la grazia.




Ripenso a Giovanni e Campanella affacciati al finestrino del treno galattico nel racconto di Kenji, e noto che innumerevoli treni attraversano le illustrazioni di Roku, alcuni bene in vista, altri più o meno nascosti: grandi locomotive in arrivo alla stazione, treni a vapore che al tramonto volano sopra gli alberi alla fine del villaggio, trenini giocattolo nell’angolo di una stanza e piccole ombre di vagoni in fila nel cielo smeraldino, con tanto di segnaletica interstellare… Anche il semplice gesto della madre che cuce o stira può trasformarsi in un mezzo di trasporto, così come un bruco che scivola su una foglia sotto lo sguardo attento del bambino, e perfino in una giornata nuvolosa – come accade nella primissima copertina di Shūkan Shinchō – può succedere che le casette di un villaggio di mare formino una serie di vagoni che sfrecciano sulle ali del vento, sollecitando la bambina sulla spiaggia a improvvisare una coreografia che sembra mimarne la corsa. Nei paesaggi d’infanzia di Roku ogni cosa è animata e richiama un rispecchiamento.

È curioso osservare come questa copertina del 1956, tanto rappresentativa da essere stata incisa sulla sua tomba, condensi già l’ispirazione fondamentale dell’opera che nel corso dei decenni l’artista avrebbe perfezionato in centinaia e centinaia di illustrazioni. Certo, chiunque veda oggi per la prima volta questi disegni potrebbe rimanere perplesso di fronte al loro stile naïf e alla loro estetica artigianale. Non è forse vero che tutti i personaggi si assomigliano come tante bambole? A chi poi ritenga che certe immagini rischino di risultare stucchevoli, soprattutto in grandi quantità, mi sentirei di rispondere che una delle prove più convincenti della maestria di Taniuchi è stata la sua capacità di muoversi in lungo e in largo su un territorio minato come pochi altri, qual è l’immaginario dell’infanzia, senza mai inciampare negli eccessi e negli stereotipi più comuni. Una seconda domanda, piuttosto, può aiutare a comprendere meglio la sua grandezza: di quanti artisti è possibile affermare che disegnano e dipingono davvero come bambini, senza alcun trucco e nel senso più nobile del termine? In un luogo peculiare come il Giappone, Paese di bambole e di sogni dotato di una profonda sensibilità per l’infanzia, un genio benevolo deve aver concesso a Roku il dono più prezioso, ed è probabilmente in virtù di questo talento se delle illustrazioni nate come copertine di un periodico sono tuttora conservate in un museo, continuamente ristampate e condivise online in tutto il mondo. Con l’immancabile firma e il titolo a margine che ricordano i lavori di uno scolaro; effimere eppure fuori dal tempo, proprio come i disegni di un bambino sul vetro.