15/10/21

Il futuro che non c’era


Rileggo un tema che ho scritto in terza elementare, intitolato Il calcola-futuro, e mi colpisce ritrovare un’idea che all’epoca dovevo associare alla sfera del divino non meno che ai prodigi della scienza e della tecnologia, ovvero l’intuizione che ogni evento possa essere previsto secondo una logica matematica.

Il calcola-futuro. Mi piacerebbe inventare una calcolatrice che indovina il futuro di tutti: si chiama calcola-futuro. Per farla funzionare mi occorre un pezzo di anello di Saturno da inserire in un buco nella macchina. Costruirla è molto difficile! Serve tantissima pazienza per unire i pulsanti e attivare i fili magnetici. Con questa macchinetta sarebbe bello sapere il futuro di tutti i miei amici e i miei genitori. Questa macchina può stare sia in acqua che in terra che nello spazio. La mia invenzione ha un pulsante speciale: serve a comunicare con i miei compagni di classe e avvertirli di un’emergenza. Questo pulsante si chiama tasto di comunicazione. Se riuscirò a montarlo tutto, i miei amici mi invidieranno. Sarebbe bello sapere il futuro di tutte le persone. Ma è più importante vivere il presente.

Nel tema ho immaginato una macchina capace di calcolare qualsiasi avvenimento, accarezzando dunque l’ipotesi di un futuro già scritto e sorvolando sulle sue inquietanti implicazioni. Per quel bambino-inventore, in cui oggi provo a immedesimarmi di nuovo, conoscere il futuro di amici e famigliari è infatti un passatempo piacevole, e mi viene da pensare che porti con sé un senso di sollievo derivante non tanto da un’emozione, quanto dalla sua cessazione. Il calcola-futuro dissolve le ansie, le paure e le incertezze legate a tutto ciò che ancora non si conosce, talmente assillanti da infiltrarsi anche in alcune forme verbali che nel testo si contrappongono al presente fantastico, mettendo in dubbio la stessa possibilità di realizzare un’invenzione tanto complicata. Il «sarebbe bello» si tinge presto di irrealtà, e alla fine cede il passo a un diverso tipo di presente, non più fantastico ma assolutamente realistico nella sua piattezza didascalica, in un epilogo che suona a dir poco sospetto, per non dire contraffatto. «Sarebbe bello sapere il futuro di tutte le persone. Ma è più importante vivere il presente»: dalla sincerità pura del sogno al falsetto del dettato?

Io… Verifica d’italiano. Io sono Matteo, ho 8 anni; frequento la classe III e sono bravo in tutte le materie scolastiche, mi piace studiare e anche leggere. Da grande mi piacerebbe fare il notaio come mia mamma; perché voglio aiutare tante persone: fare testamenti; firmare fogli importanti. A volte penso se dovrò andare all’università come i miei genitori, ma se andrò lì non mi lascerò scoraggiare: ho tanta volontà. Anche se alcune volte, la mamma torna a casa stanca dal lavoro, so che il suo lavoro è molto interessante. Qualche volta, a casa ho chiesto alla mamma se potevo, da grande, compiere il lavoro del notaio. Lei è stata orgogliosa di quello che le ho detto e, naturalmente ha detto di sì. Per svolgere questo lavoro dovrò studiare tantissimo e impegnarmi tante ore al giorno; ma non mi lascio scoraggiare e non mi tirerò indietro facilmente. Inoltre devo sfruttare la mia intelligenza ed avere un’ottima memoria. Allo studio di mia mamma vengono tante persone perché sanno che lei è molto brava ad interpretare questo lavoro e sanno anche che è molto intelligente e ha una buona memoria. Inoltre, vorrei svolgere la professione del calciatore; per essere bravo in questo sport bisogna allenarsi molto e saper correre veloce. I miei genitori me lo vietano e dicono di sfruttare la mia intelligenza bene e non sciuparla. Infatti, prima di fare il calciatore dovrò studiare tanto. Non so se i miei sogni si avvereranno.

In un altro tema dello stesso anno, due punti di domanda lasciati a margine dalla maestra segnalano un pensiero che ricorre più volte, in una sorta di variante sul motivo della difficoltà di conoscere/affrontare il futuro. Si tratta del classico tema autobiografico sul “chi sono” e “cosa mi piacerebbe fare da grande”, e le frasi incriminate riguardano la preoccupazione di non essere all’altezza degli impegni richiesti. Leggendo: «A volte penso se dovrò andare all’università come i miei genitori, ma se andrò lì non mi lascerò scoraggiare», e ancora: «dovrò studiare tantissimo e impegnarmi tante ore al giorno; ma non mi lascio scoraggiare e non mi tirerò indietro facilmente», la maestra deve aver pensato che tali considerazioni non erano motivate in maniera adeguata, e forse che non si addicevano al ritratto del bambino dotato che lei conosceva, opportunamente tratteggiato nell’incipit. Al di là di queste sbavature, comunque, chissà se si era accorta della curiosa sproporzione di un tema in cui il “chi sono” è liquidato in una sola frase iniziale, mentre il “chi sarò” occupa quasi interamente le tre facciate.

Rileggo le parole che ho scritto tanto tempo fa, e dietro alla costante attenzione per il futuro, dietro alle ambizioni e alla volontà dello scolaro diligente, ritrovo una sensazione di sfiducia che oggi mi interroga ancora, come già all’epoca quei punti di domanda sul margine del quaderno. Per quale ragione uno studente modello può avvertire tale sfiducia nelle sue capacità e una costante preoccupazione per il futuro? Forse perché i successi dello scolaro, proiettati sulla sua carriera futura, sono diventati una specie di corazza che protegge e al tempo stesso nasconde la vita interiore del bambino, con le sue emozioni e le sue fragilità. Una corazza talmente spessa da lasciare al “chi sono” uno spazio appena sufficiente per l’abbozzo di un ritratto stereotipato.

Queste riflessioni non hanno per me un valore strettamente individuale. Da quando ho iniziato a insegnare alla scuola primaria, più volte mi sono trovato a riflettere sull’evoluzione di una scuola che per molti aspetti è sempre più simile a un’impresa, fondata su un’ossessiva documentazione burocratica e sulla certificazione di competenze spendibili sul mercato del lavoro; per non parlare di quanto la mentalità aziendalistica odierna influenzi bambini che già a otto o nove anni sognano di diventare influencer, ovvero imprenditori di sé stessi. Una scuola in cui la produttività esibita del “chi sarò” (o meglio “cosa farò”) schiaccia la profondità nascosta del “chi sono”, sostituendole una sua caricatura performativa, e nella quale ci si aspetta che studenti e insegnanti sviluppino competenze e competano tra di loro a ritmo continuo, invece di confrontarsi con conoscenze e conoscersi a fondo reciprocamente. Una scuola in cui l’ansia del futuro rischia di cancellare il piacere del tempo, come la frenesia dell’istante tende a logorare il senso della durata e dell’interiorità. Essendo stato un bambino per il quale la scuola ha rappresentato il più importante luogo di formazione e di socialità, e uno dei pochissimi luoghi in cui gli era possibile intrattenere relazioni significative con altre persone al di fuori dell’ambiente famigliare, mi viene naturale condividere le opinioni espresse nel Manifesto per la nuova scuola, sottoscritte da numerosi insegnanti intenzionati a rimettere al centro la scuola «come luogo di formazione e di relazione, basato sulla conoscenza e sulla trasmissione del sapere», a fronte di politiche ispirate a un’idea di scuola radicalmente diversa.

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