Due archetipi femminili dominano la rappresentazione dell’eros nella letteratura di Tanizaki Jun’ichirō (1886-1965): da un lato la donna crudele che sottomette gli uomini riducendoli a fantocci; dall’altro la figura dolce e materna, simbolo di un’unione totalizzante col proprio bambino. In generale, è possibile osservare come questi due archetipi riflettano nell’opera dell’autore la contrapposizione classica tra l’amore profano e l’amore sacro, oltre che quella tra Occidente e Oriente, alla quale se ne accompagna una ulteriore tra modernità e tradizione: se le donne crudeli richiamano infatti il modello della femme fatale occidentale, figura emblematica dell’emancipazione femminile evocata nei volti delle dive del cinema, la sfera del materno trova la propria origine nel ricordo autobiografico dell’infanzia, e in particolare nella contemplazione della bellezza della madre.
Nonostante l’apparente scissione, del resto, entrambi gli archetipi costituiscono il prodotto di un’idealizzazione, e possono dunque essere accostati in quanto espressioni di un desiderio che non si appunta su una donna reale, bensì su una fantasia radicata negli strati più profondi della coscienza. L’affiorare di questa fantasia, che nelle opere di Tanizaki assume tipicamente connotazioni masochistiche e feticistiche, porta molti dei suoi personaggi a sperimentare un conflitto tra la propria esistenza e la ricerca ossessiva della bellezza, la cui risoluzione passa attraverso un atto che trasforma l’esperienza amorosa in una creazione artistica.
Mishima Yukio ha scritto che per Tanizaki la bellezza «è un problema di una grande semplicità. Per renderla reale sarà sufficiente mutare aspetto alla realtà». Nel suo primo racconto, Il tatuaggio (1910), un uomo attratto dal piede di una ragazza decide di tatuarle sulla schiena un gigantesco ragno, allo scopo di «materializzare il suo concetto di arte sul corpo di una donna». Una situazione analoga è narrata in termini più realistici in altri racconti, tra cui Jōtarō (1914): stanco di restarsene «con le mani in mano ad attendere che la donna delle sue fantasie apparisse come per incanto all’orizzonte», il giovane protagonista pensa che il sistema migliore sia «trovare una donna che gli piacesse ed educarla poco a poco, in modo da farle acquistare un carattere audace e crudele». Anche per il narratore di Nostalgia della madre (1919), d’altra parte, l’esperienza di un’infanzia ritrovata necessita della mediazione del sogno, ovvero di una creazione che surroga la mancanza, ma al risveglio tradisce impietosamente la sua natura fantastica.
Come nota Emanuele Ciccarella, «la “donna-opera-d’arte” […] che l’artista ha pazientemente creato, alla fine deve necessariamente sopraffare colui che vi ha consacrato la propria esistenza». Ciò può coincidere per l’artista con la scoperta del carattere artificioso e precario della creazione di cui ha perso il controllo, e può tradursi in una sensazione di impotenza, oltre che nell’angoscia di smarrire il proprio amore, esattamente come la perdita della madre ha posto per la prima volta il bambino di fronte alla realtà della morte.
Un’ulteriore strategia di difesa per alcuni uomini-artisti di Tanizaki consiste allora in una nuova creazione, il cui oggetto privilegiato non è più la donna, bensì la loro stessa figura intesa come specchio della bellezza e del potere femminile. Dopo aver impiegato tutte le sue energie per forgiare la propria donna ideale, il protagonista del racconto Fino ad essere abbandonato (1913) sente svanire completamente la pena «che fino ad allora aveva oppresso il suo cuore» nel momento in cui le confessa la propria debolezza, scoprendo che «più si sarebbe umiliato e sottomesso a lei, e più la sua bellezza avrebbe sfolgorato luminosa». La fantasia masochistica è la stessa, ma porre l’accento sulla propria umiliazione, piuttosto che sull’idealizzazione della donna, si rivela una strategia più efficace per contenere l’angoscia della perdita. Da questo spostamento, allo stesso modo in cui in un passo di Jōtarō il protagonista, spaventato, cerca di attirare su di sé l’attenzione per «trasformare lo stupore e la paura in comicità», trae origine nell’opera di Tanizaki la messa in scena di figure dell’eros comico e grottesco, anticipatrici della cultura dell’ero guro nansensu.
Mishima Yukio ha scritto che per Tanizaki la bellezza «è un problema di una grande semplicità. Per renderla reale sarà sufficiente mutare aspetto alla realtà». Nel suo primo racconto, Il tatuaggio (1910), un uomo attratto dal piede di una ragazza decide di tatuarle sulla schiena un gigantesco ragno, allo scopo di «materializzare il suo concetto di arte sul corpo di una donna». Una situazione analoga è narrata in termini più realistici in altri racconti, tra cui Jōtarō (1914): stanco di restarsene «con le mani in mano ad attendere che la donna delle sue fantasie apparisse come per incanto all’orizzonte», il giovane protagonista pensa che il sistema migliore sia «trovare una donna che gli piacesse ed educarla poco a poco, in modo da farle acquistare un carattere audace e crudele». Anche per il narratore di Nostalgia della madre (1919), d’altra parte, l’esperienza di un’infanzia ritrovata necessita della mediazione del sogno, ovvero di una creazione che surroga la mancanza, ma al risveglio tradisce impietosamente la sua natura fantastica.
Come nota Emanuele Ciccarella, «la “donna-opera-d’arte” […] che l’artista ha pazientemente creato, alla fine deve necessariamente sopraffare colui che vi ha consacrato la propria esistenza». Ciò può coincidere per l’artista con la scoperta del carattere artificioso e precario della creazione di cui ha perso il controllo, e può tradursi in una sensazione di impotenza, oltre che nell’angoscia di smarrire il proprio amore, esattamente come la perdita della madre ha posto per la prima volta il bambino di fronte alla realtà della morte.
Un’ulteriore strategia di difesa per alcuni uomini-artisti di Tanizaki consiste allora in una nuova creazione, il cui oggetto privilegiato non è più la donna, bensì la loro stessa figura intesa come specchio della bellezza e del potere femminile. Dopo aver impiegato tutte le sue energie per forgiare la propria donna ideale, il protagonista del racconto Fino ad essere abbandonato (1913) sente svanire completamente la pena «che fino ad allora aveva oppresso il suo cuore» nel momento in cui le confessa la propria debolezza, scoprendo che «più si sarebbe umiliato e sottomesso a lei, e più la sua bellezza avrebbe sfolgorato luminosa». La fantasia masochistica è la stessa, ma porre l’accento sulla propria umiliazione, piuttosto che sull’idealizzazione della donna, si rivela una strategia più efficace per contenere l’angoscia della perdita. Da questo spostamento, allo stesso modo in cui in un passo di Jōtarō il protagonista, spaventato, cerca di attirare su di sé l’attenzione per «trasformare lo stupore e la paura in comicità», trae origine nell’opera di Tanizaki la messa in scena di figure dell’eros comico e grottesco, anticipatrici della cultura dell’ero guro nansensu.
[Continua su Fillide 22 – Eros e comicità]
Torii Kiyonaga, Two Geisha with a Parasol and a Male Servant, dalla serie Mirror of Women’s Customs (Onna fûzoku masu kagami, 1790) |
Tanizaki Jun’ichirō (1913) |
Locandina di Chijin no ai di Masumura Yasuzō (La gatta giapponese, 1967), film tratto dal romanzo di Tanizaki L’amore di uno sciocco (1924-25). |