12/12/20

Kim Ki-duk. Cattività e bellezza


«Spazio e cattività sono i due temi ricorrenti nella mia opera» osservò in un’intervista Kim Ki-duk. In diversi suoi film, come Soffio (2007) e Il prigioniero coreano (2016), la connessione tra i due temi appare evidente nel motivo di uno spazio chiuso e claustrofobico che diventa per l’uomo una prigione. In altri film, tra cui L’arco (2005) e L’isola (2000) – il suo primo grande successo internazionale –, un’espressione maggiormente metaforica del medesimo legame è fondata sul simbolo dell’acqua e sul suo potere di isolare le persone, trasformandole in monadi. La cella in cui viene rinchiuso il ragazzo di Ferro 3 – La casa vuota (2004), e in generale tutti gli interni del film, ovvero le case che l’innominato protagonista abita nel silenzio, in assenza e all’insaputa dei rispettivi proprietari, esplorano una dimensione di isolamento e prigionia ancora più irreale, nella quale e attraverso la quale lo spazio diviene occasione di passaggio, di scomparsa e di metamorfosi.

La derivazione dell’aggettivo “cattivo” da “cattività” suggerisce una riflessione che ribalta il rapporto di consequenzialità per cui chi ha fatto qualcosa di male, in quanto cattivo, dev’essere imprigionato: al contrario, il cattivo è tale in quanto prigioniero, ovvero vittima di ciò che lo fa stare male. Per questa ragione, nel cinema di Kim Ki-duk, la cattività assume spesso la forma della violenza più estrema (cosa che negli anni gli ha attirato non poche accuse), ma conosce anche la possibilità della grazia. A proposito dell’Isola, durante la presentazione al festival di Venezia, Kim Ki-duk ricordò di essere rimasto piacevolmente colpito quando si vide descritto, forse per la prima volta, almeno in ambito internazionale, come un regista dallo straordinario talento per l’espressione poetica: mentre i dibattiti tendevano a concentrarsi sugli aspetti grotteschi e sulle scene più crude della pellicola, confessò, sapere che il suo film era stato interpretato sotto il segno della poesia e della bellezza l’aveva fatto traboccare di gioia.

L’isola (2000)

Ferro 3 – La casa vuota (2004)

Mi piace pensare che dalla gioia di questo riconoscimento possa essersi originata l’ispirazione di Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera (2003), il film che credo condensi al meglio le riflessioni di Kim Ki-duk sullo spazio e sulla condizione di cattività, e che meglio di ogni altra sua opera è espressione di una bellezza capace di abbracciare i più vari e contraddittori aspetti della vita umana. Paragonandolo a un capolavoro onirico come Sogni (1990) di Kurosawa Akira per la sua natura episodica, simbolica e spirituale, l’autrice di un’importante monografia su Kim Ki-duk, Hye Seung Chung, osservò che la differenza principale risiede nell’età che i registi avevano all’epoca in cui realizzarono i due film: Kurosawa ottantenne, Kim poco più che quarantenne, e a soli sette anni di distanza dal suo debutto, ma dimostrando la sapienza e la maestria di un ottuagenario.

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Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera (2003)