14/09/20

Le corrispondenze imperfette di Gilberto Severini


In “Primi passi”, il terzo racconto della raccolta Quando Chicco si spoglia sorride sempre da poco ripubblicata da Playground (con lievi correzioni stilistiche apportate all’edizione Rizzoli del 1998), c’è una scena a mio parere perfetta per introdurre un discorso sulla prosa di Gilberto Severini, che nel panorama letterario italiano degli ultimi decenni spicca per grazia, equilibrio e limpidezza. Il narratore sta rievocando i pomeriggi dell’adolescenza trascorsi assieme ad altri ragazzi nella grande casa di un amico che faceva loro da insegnante di ballo, in previsione dei futuri appuntamenti danzanti con le coetanee. Dopo le lezioni di prova, prima senza musica e poi con l’accompagnamento del giradischi (siamo alla fine degli anni ’50), il racconto si sofferma sull’insegnamento più difficile da padroneggiare, che per i ragazzi rappresenta il culmine del percorso di apprendistato.

Il ballo da fermi era il massimo sia sul piano dell’eleganza che su quello del pomiciare. Eravamo interessatissimi a entrambi. Consisteva nello restare quasi immobili, pur ballando. Il difficile era tutto in quel quasi. Perché a vedere quella fissità di coppia impercettibilmente oscillante si capiva subito chi sapeva ballare e chi no. Chi stava lì, in piedi, come si aspetta un autobus e chi invece era davvero in sintonia con la musica, vi si abbandonava consapevolmente interpretandone il ritmo e persino la melodia. Il segreto stava nell’imprimere al corpo la direzione dei movimenti, ma non i movimenti.

L’immagine di una danza immobile è una metafora calzante per lo stesso racconto, dove in appena una dozzina di pagine convergono numerose tensioni quasi impalpabili. Il tempo è quello dell’attesa e del passaggio alla maturità, ma la voce che ricorda la fine dell’adolescenza da una prospettiva temporale indefinita, pur aderendo agli eventi narrati con grande compostezza, vibra sia delle aspettative per un mondo a venire, sia di una nostalgia per il passato espressa in toni allusivi. L’intero racconto è permeato da un’atmosfera agrodolce, ma non mancano note di schietta comicità, di meraviglia e di mistero – come gli accenni iniziali, di gusto infantile e fiabesco, alle scatole di cioccolatini ancora cellofanate e alle due porte sempre chiuse della grande casa – che lo rendono simile a un prisma irradiato nella penombra da più fonti luminose.

Uno degli elementi più interessanti del racconto è la prima persona plurale utilizzata dalla voce narrante, a rimarcare da un lato la partecipazione a un’esperienza condivisa, dall’altro la distanza temporale che separa i fatti dal momento della loro rievocazione soggettiva. Anche il lettore che non abbia familiarità coi temi più caratteristici dell’opera di Severini, e in particolare col motivo a lui caro del desiderio omoerotico vissuto in modo problematico nell’ambiente chiuso della provincia, è portato così a immaginare che il narratore stia proiettando sui sogni del passato, almeno in parte, la propria disillusione posteriore, nonostante la sua voce rifugga tanto le lamentale quanto le stucchevoli idealizzazioni. L’abilità dell’autore, qui, consiste nell’ottenere tale effetto senza alcuna esplicita confessione, ma attraverso riferimenti musicali che fungono da cassa di risonanza per un intero universo emotivo inespresso. La musica che «traboccava di sicurezze e di futuro» e «annunciava il tipo d’amore che ognuno di noi stava aspettando senza confidarlo a nessuno», in una storia al plurale dove il futuro è fuori scena, produce una singolare eco dissonante, e anticipa la «vecchia canzonetta» finale, le cui parole, rivolgendosi a un “tu”, spezzano l’incantesimo del “noi”.

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