16/04/20

Gli amori immaginari di Kim Ki-duk


Lo scorso gennaio, durante la cerimonia dei Golden Globe, Bong Joon-ho ha esortato il pubblico americano a «superare la barriera dei sottotitoli» per scoprire il meglio del cinema straniero, con parole che possono essere lette come un invito a sorpassare una soglia testuale, sede di differenze (e diffidenze) linguistiche ma anche culturali, oltre la quale l’esperienza della visione rivela la sua essenza universale: «I think we use only just one language: the cinema». Sulla rivista britannica Sight and Sound, commentando la scelta di affidare a Bong Joon-ho il ruolo di guest editor del numero di marzo, l’editoriale di Mike Williams richiama proprio questo concetto, e si riferisce al regista coreano come a uno dei «visionari più creativi» del cinema contemporaneo. Bong Joon-ho, dal canto suo, ha compilato una lista di venti registi emergenti intitolata “20/20 Vision”, introdotta da un’affermazione sorprendente: «Già nel vedere il secondo film di Wong Kar-wai, Days of Being Wild (1990), abbiamo forse potuto sognare nelle nostre menti In the Mood for Love (2000)».

La stessa intuizione può essere verificata su Bong Joon-ho, ad esempio sulla scorta dei ben tre episodi che in tempi ancora lontani dalla Palma d’oro e dagli Oscar di Parasite gli sono stati dedicati in Every Frame a Painting (2014–16), la web-serie di Tony Zhou e Taylor Ramos. Nell’episodio su Memorie di un assassino (2003) è discussa una tecnica chiamata ensemble staging, che consiste nell’orientare lo sguardo dello spettatore non attraverso il montaggio o con movimenti di camera, ma mediante la composizione dell’inquadratura e la disposizione dei personaggi nello spazio. Per limitarci al caso più eclatante, l’inquadratura che mostra i poliziotti in un locale notturno è costruita all’inizio su una singola opposizione spaziale (sinistra/destra), legata a un diverbio tra due personaggi, alla quale se ne aggiunge una seconda (primo piano/sfondo), nel momento in cui lo spettatore nota la presenza di un altro poliziotto dietro il divano. Quando poi i due poliziotti in primo piano si azzuffano, il risveglio improvviso del loro superiore al centro della scena pone fine al conflitto, e quest’ultimo assume su di sé gli sguardi di tutti e tre i suoi dipendenti, che per la prima volta si incrociano. Una scena grottesca di baruffa e gozzoviglie, così, conduce senza soluzione di continuità a un importante discorso strategico che richiede la cooperazione di tutti i personaggi, ovvero a qualcosa che per lo spettatore sarebbe stato impensabile fino a un attimo prima, ma che a livello di immagine era già implicito nel convergere delle varie tensioni verso un punto comune.

Memorie di un assassino (Bong Joon-ho, 2003)

Days (Tsai Ming-liang, 2020)

L’invito al superamento delle barriere linguistiche espresso da Bong Joon-ho è stato in un certo senso ripreso e portato alle estreme conseguenze da Tsai Ming-liang, che alla 70ª Berlinale ha intenzionalmente presentato il suo ultimo film, Days, nella versione originale priva di sottotitoli. «Non credo che il film necessiti di sottotitoli», ha spiegato il regista taiwanese. «Alcuni spettatori sentono parlare in cinese nel film, e vogliono subito capire cosa si sta dicendo, o altrimenti diventano ansiosi. Ma in realtà non ne hanno bisogno. Il fatto che capiscano o meno le parole non influisce sul loro grado di comprensione del film. Anzi, [se non capiscono le parole] diventano degli osservatori ancora più imparziali delle immagini. Il mio scopo non è far sì che si concentrino su un personaggio particolare, bensì sulla visione in sé e per sé.»

Nella cura dell’immagine, ovvero nell’attenzione per l’esperienza visiva dello spettatore, risiede il punto di incontro tra due registi molto diversi come Bong Joon-ho e Tsai Ming-liang – l’uno eccezionale per la capacità di mescolare generi e registri ad alta intensità, l’altro per la coerenza di un percorso autoriale improntato alla rarefazione più assoluta delle convenzioni narrative. E nella memoria di immagini che anche a distanza di tempo chiedono di essere lette, anzi interrogate, è possibile cogliere uno degli aspetti più interessanti e sfuggenti del piacere della visione cinematografica. Non si tratta solo di immagini che contengono nella propria composizione una serie di informazioni sintomatiche (come l’inquadratura di Memorie di un assassino), o che celano in sé indizi metaforici di cui lo spettatore è inconsapevole (come in Parasite lo spaventoso disegno del piccolo Da-song), ma anche di immagini che conducono oltre la singola scena e lo stesso film di cui fanno parte, prefigurando magari visioni future o richiamandone altre passate, non necessariamente del medesimo autore.

Riccardo Panattoni, Kim Ki-duk (Orthotes, 2020)

[continua su Doppiozero]