20/11/19

Smarrirsi a filo d’erba. «Fuori da noi» di Giovanna Zoboli


C’è un piccolo dettaglio che mi ha subito incuriosito sulla copertina di Fuori da noi, libro di Giovanna Zoboli pubblicato da Nuova Editrice Berti che raccoglie testi divaganti, nei quali l’infanzia e i ricordi di vita, divenuti racconti e riflessioni sulla letteratura, non cessano di interrogare il senso di «cose, piante, città» (dal nome di un gioco per bambini diffuso in tutto il mondo, che fornisce al volume il sottotitolo e la struttura). Non è il trifoglio che campeggia solitario nel prato, ma un filo d’erba che spunta più in alto degli altri al suo limite superiore, appena sotto il titolo. Al confine tra immagine e testo, questo singolo filo d’erba può essere letto anche come una virgola, di modo che «Fuori da noi» diventi «Fuori, da noi».


Vorrei provare a raccontare la mia esperienza di lettura proprio a partire da questo gioco di parole, come una sorta di indagine attorno al titolo originale e a quello del libro “parallelo” che in quanto lettore sentivo crescere nella mia mente. A proposito del primo, l’introduzione di Mariolina Bertini si sofferma in particolare sul breve ma densissimo testo che apre la raccolta, Altrove, esemplare per la capacità dell’autrice di «immergersi nella complessità del reale con il più totale abbandono, per tornare poi alla superficie e offrirci dei fondali scandagliati il più sobrio e pacato dei resoconti». Zoboli ricorda qui tre occasioni in cui ha provato l’impressione di uscire dalla propria vita, e non è forse casuale il fatto che i tre momenti di smarrimento descritti corrispondano in modo abbastanza preciso alla suddivisione tripartita del volume. La spiaggia del primo ricordo è infatti un complesso di cose («gli ombrelloni, le sdraio, gli stabilimenti balneari»), il bosco un insieme di piante, e Parigi una città. Nel mezzo del racconto, poi, viene tracciata una corrispondenza rivelatrice tra questi momenti straordinari e l’esperienza del lettore: «la letteratura, scoprii più avanti, è piena di questi buchi, brecce aperte per farci cadere fuori da noi stessi».

Come lettore sentivo a quel punto di essermi ormai inoltrato in un territorio ambiguo e affascinante: un filo d’erba al confine tra due mondi e una corrispondenza appena accennata tra le pieghe della vita e la letteratura erano bastati ad attirarmi in modo irrevocabile al di là della soglia, nel campo sconfinato dell’immaginario. Avevo cominciato ad annotare su un foglio alcuni numeri di pagina, e dopo aver letto un paio di testi mi era chiaro che Fuori da noi appartiene alla categoria dei libri sui quali non si smette mai di tornare, perché pur nascendo da ricordi personali attraggono il lettore ben oltre il recinto di un’esperienza autobiografica e della sua eventuale possibilità di condivisione. Molti ricordi che diventano oggetto di racconto, infatti, non conservano solo intatta la freschezza di un punto di vista infantile (cosa già di per sé rara), ma somigliano a ponti che conducono in direzioni sempre diverse, e spesso inattese.

Decine di passaggi potrebbero essere richiamati a questo punto come esempi di una materia cangiante, aperta a suggestioni che vanno dai primi ricordi di lettura a una sorta di fenomenologia dei viaggi in treno, spaziando per cartoline antiche, stanze cinesi, fiabe e libri di botanica, ma per spiegare l’interesse e l’entusiasmo che il libro suscita a più riprese penso sia sufficiente riferirsi a uno dei testi più articolati della raccolta, Sono stata un principe indiano, incentrato sugli anni della scuola elementare. Il racconto del problematico trasferimento di Giovanna alla Casa del Sole, risolto grazie a un gatto, alla saggezza di un’anziana maestra e a un cavallino giocattolo, ricorda in tutto e per tutto lo svolgimento di una fiaba, e inoltre offre uno spaccato della vita interiore della bambina che è al tempo stesso caratterizzato da un’esattezza stupefacente e da una narrazione efficace, divertente e onesta. Dei suoi insegnanti l’autrice ricorda affettuosamente il carattere, i gesti e alcune situazioni emblematiche, con la stessa attenzione ai dettagli che in altri testi è dedicata alle illustrazioni di Adrienne Ségur («di una bellezza quasi inverosimile, ultraterrena»), alla fisionomia delle piante cresciute nel corso degli anni, o ai diari dove per decenni Janina Turek ha registrato ogni singolo accadimento della sua vita, messi in dialogo con le poesie di Wisława Szymborska.


Il sospetto che quella virgola d’erba sulla copertina sia anch’essa un dettaglio voluto o comunque cercato, del resto, convive col riconoscimento di un’altra forza che nel corso del racconto assume un’importanza decisiva, ovvero il caso. Già a proposito della mitica enciclopedia per ragazzi I Quindici, una sorta di archetipo della fascinazione per il mondo delle figure che non avrebbe più abbandonato l’autrice, Zoboli spiega come «quei quindici meravigliosi libri ci arrivarono portati dal caso e dall’errore,» sfuggendo alla premura con cui il padre cercava di selezionare i testi più idonei. Più tardi, allo stesso modo, il battesimo alla letteratura romanzesca avviene grazie a una serie di coincidenze imprevedibili. La sua classe viene scelta per partecipare a un programma televisivo, e la bambina, sorteggiata assieme ad altri tre fortunati alunni, ha l’occasione di visitare una grande banca milanese, alla cui descrizione è dedicato uno dei passi più evocativi del volume.
Là fummo accolti con tutti gli onori e, oltrepassate le gigantesche colonne d’ingresso, entrammo nel vasto atrio della banca, dove vidi la cosa che meno mi sarei aspettata in una banca. Nel pavimento di marmo un oblò si apriva su una luminosa colonna d’acqua senza fondo, dove nuotavano centinaia di pesci rossi. Pensai immediatamente che la funzione di quella banca fosse ospitare nel pavimento il più incredibile acquario mai concepito. Qualcosa che dava l'idea degli abissi e insieme rivelava che sotto i nostri passi covano mondi misteriosi, abitati da creature insospettate e perfette.

Dopo una mattina di corse avanti e indietro «per corridoi infiniti», in un luogo che «pareva una sorta di paese dei giganti», il perfetto coronamento di questa avventura fiabesca è un dono fatato. Per i bambini si tratta del Richiamo della foresta, per le bambine di Piccole donne, e se oggi la distinzione farebbe storcere il naso a molti, è interessante notare come in essa l’autrice scorge ancora una volta il segno provvidenziale del caso, perché «mentre Il richiamo della foresta lo ricevetti in regalo dai miei, Piccole donne non avrebbe mai fatto la sua comparsa nella mia libreria». 

C’è qualcosa di molto vero e rigenerante nella storia di una bambina che si identifica in Jo March perché come lei sente di essere un maschio, e arriva al punto di amarla: «L’eroina amata da milioni di ragazze, assoluta prima donna del romanzo più femminile che probabilmente mai è stato scritto, era l’apoteosi della mia parte maschile». Il suo sentirsi maschio, osserva l’autrice, era un fatto interiore, ma aveva trovato una preziosa linfa in tutto ciò che attraverso la finzione permetteva di uscire da sé, leggendo le pagine di un romanzo o sognando di indossare per Carnevale un costume da principe indiano. Il senso di Fuori da noi, ho pensato a quel punto, non è solo quello di un’esperienza che dalla propria interiorità conduce altrove, ma anche quello di un nuovo riconoscimento del sé in uno spazio più grande e plurale, che travalica i confini di qualsiasi identità individuale. Che si chiami vita, letteratura o immaginario, è qualcosa che ci appartiene nel profondo, e di cui non sempre permane traccia in ciò che abitualmente ci definisce: Fuori, da noi.


[In copertina: un’illustrazione di Alicia Baladan tratta da Una storia guaranì (Topipittori, 2010)]