16/09/18

Bagliori fatui. I racconti di Miyamoto Teru


Originariamente pubblicati in un arco di tempo che va dal 1978 al 1988, gli otto racconti contenuti in Bagliori fatui (trad. dal giapponese di Paolo Villani, ed. Carbonio 2017) hanno sancito l’ingresso nelle librerie italiane dell’opera di Miyamoto Teru, autore poco tradotto in Europa ma molto noto in Giappone fin dagli esordi, quando coi primi due romanzi brevi della cosiddetta “trilogia dei fiumi” (Il fiume di fango, 1977; Il fiume delle lucciole, 1977; Il fiume delle luci, 1978) ottenne rispettivamente il premio Osamu Dazai (1977) e il premio Akutagawa (1978), ovvero il più prestigioso riconoscimento letterario nazionale.

Nato nel 1947, Miyamoto Teru appartiene alla generazione di autori cresciuti durante l’età critica della ricostruzione postbellica. Le coordinate più ricorrenti nelle sue opere, di ispirazione spesso autobiografica, rimandano alla regione operaia di Osaka-Kobe, a quartieri di periferia e a villaggi desolati, e in generale a scenari di povertà che interessano gli strati più umili della popolazione, dimenticati nelle retrovie mentre il resto del paese inseguiva il miracolo di una rapida ripresa economica. Lo stesso Miyamoto conobbe da bambino il peso del fallimento dell’impresa di famiglia, trascorse un’infanzia e un’adolescenza costellate da numerosi traslochi e prima di dedicarsi alla scrittura, oltre a cercare di sostenersi con lavori a breve termine, soffrì di frequenti attacchi di panico quando fu impiegato presso un’agenzia pubblicitaria. In parallelo a una grande passione per la lettura, molte caratteristiche della sua sensibilità letteraria, in effetti, si direbbero maturate proprio a seguito di esperienze personali, a cominciare dalla profonda capacità di introspezione e dal sincero interesse per gli aspetti più riposti e problematici della vita quotidiana.


Una delle storie più intense della raccolta, Sulle scale, si apre con la rievocazione di un ambiente urbano fatiscente, dove il narratore racconta di essersi trasferito con la sua famiglia nel 1962, quando aveva appena cominciato le superiori: «Imboccando la traversa della strada percorsa dal tram si capiva che l’isolato del quartiere Taishō di Osaka dove vivevamo delimitava una zona di edifici abbandonati oramai inabitabili, un’area zeppa di caseggiati in legno con i tetti ondeggianti e le porte d’ingresso divelte». A distanza di molti anni il ricordo è indelebile e quasi insostenibile, per l’uomo che vorrebbe invece tagliare i ponti col proprio passato. «Non voglio più, cascasse il cielo, mettere piede in case da poveri» esordisce la sua voce nell’incipit del racconto. «Persino passare nei pressi di luoghi del genere mi fa venire la pelle d’oca.» Anche il protagonista del racconto che apre il volume, Forza vitale, è riluttante a rievocare la propria infanzia, benché un uomo incontrato per caso al parco glielo suggerisca come trucco per sentirsi meglio nei momenti di sconforto. «Cosa cambia se rammenti quel passato? Non puoi farci ritorno, la nostalgia si somma alla frustrazione.» Eppure, in entrambi i casi, come anche in tutte le altre storie, la dimensione del ricordo finisce per costituire il nucleo centrale di una narrazione stratificata, nella quale il presente della diegesi è perlopiù relegato ai margini in funzione di cornice.

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