25/06/15

L’invenzione dei “funny animals” alle origini del fumetto statunitense


[Articolo pubblicato originariamente su Fumettologica il 10 giugno 2015.]

Si è soliti chiamare funny animals gli animali antropomorfi che nel ‘900 hanno attraversato la storia del fumetto e dei cartoni animati, riallacciandosi ad una tradizione eterogenea di antica memoria (che trova i suoi più prossimi antenati nell’illustrazione satirica, nella favolistica e nella letteratura per l’infanzia) ma soprattutto distinguendosi all’interno della cultura popolare del secolo trascorso come uno dei più significativi prodotti dell’immaginario occidentale.

I primi funny animals a fumetti fecero la loro comparsa negli anni a cavallo tra XIX e XX secolo, quando sulle pagine dei quotidiani statunitensi alcuni giovani artisti (non di rado europei emigrati negli U.S.A.) cominciarono a sperimentare nuove possibilità espressive date dall’interazione tra parole e disegni, fino a giungere alla codificazione del nuovo linguaggio caratteristico delle comic strips. La creazione dei più antichi animali antropomorfi a fumetti è generalmente attribuita all’americano James “Jimmy” Swinnerton, appena sedicenne quando nel 1892 entrò a far parte dello staff del San Francisco Examiner di William Randolph Hearst. I suoi funny animals si svilupparono dapprima “a margine” del quotidiano, ed in particolare come schizzi di accompagnamento all’interno della sezione meteorologica: in questo modo nacquero i cosiddetti Weather Bears, orsetti decorativi ispirati all’orso presente sulla bandiera della California e in breve tempo capaci di acquisire un singolare status iconico (ben 108 esemplari, nel numero del 28 gennaio 1894, disseminavano il giornale), tanto da sollecitare la transizione ad un’apposita serie di fumetti The Little Bears (Little Bears and Tykes), 1895.

Jimmy Swinnerton, The Little Bears (1901)

Nel 1896, conscio delle potenzialità del giovane artista, Hearst promosse il suo trasferimento a New York per collaborare al New York Journal; qui, probabilmente su iniziativa dello stesso Hearst, gli orsetti di Swinnerton si trasformarono in tigri antropomorfe in una serie chiamata The Little Tigers (1896). A partire dai personaggi di questa serie Swinnerton sviluppò in seguito l’eterogeneo bestiario ispirato al motivo dell’arca di Noè nelle grandi tavole di Mount Ararat (1901) e soprattutto l’universo felino di Mr. Jack (1903), irriverente parodia della società incentrata su quello che è forse il più antico esempio di funny animal impiegato come singolo protagonista di una comic strip. Il personaggio di Mr. Jack – assieme ai suoi compagni di avventure – è rilevante anzitutto come modello di un estremo processo di antropomorfizzazione dell’animale, che al di là del muso da lince (così lo definì l’autore, anche se il pubblico l’ha sempre creduto una tigre) assume un aspetto completamente umano non solo nel vestiario, ma anche nella conformazione del corpo. Quanto al carattere del personaggio, la vivace indole di donnaiolo dedito all’adulterio e ai vizi dell’alcool e del fumo contribuirono senz’altro al suo successo, ma ne fecero anche un bersaglio per coloro che giudicavano la striscia da un punto di vista moralistico, preoccupati del cattivo esempio che avrebbe potuto rappresentare per i bambini: a seguito delle proteste, la serie venne così spostata all’interno della sezione sportiva del quotidiano.

Jimmy Swinnerton, Mr. Jack (1905)

Un vivo interesse per il mondo animale traspare nello stesso anno in Tales of the Jungle Imps (1903), una splendida serie di ampie tavole illustrate di Winsor McCay ad accompagnare i versi di George Randolph Chester (qui mascherato dietro lo pseudonimo Felix Fiddle), a loro volta ispirati alle Just So Stories (1902) di Rudyard Kipling. La serie, composta di storielle indipendenti, narra attraverso le avventure di tre pigmei (prefigurazioni dell’Imps di Little Nemo in Slumberlandl’eziologia fantastica di alcune caratteristiche peculiari delle varie specie animali (la proboscide dell’elefante, le spine del porcospino, il guscio della tartaruga e via dicendo). Nonostante l’adozione di uno stile figurativo realistico, molto distante dalle radicali soluzioni antropomorfizzanti introdotte da Swinnerton, le storie riflettono una sostanziale tendenza ad umanizzare i comportamenti degli animali e a spiegare in modo fantasioso le differenze che esistono tra le varie specie, secondo un procedimento idoneo a sortire effetti di comicità paragonabili a quelli delle più convenzionali comic stripsAnche in questo caso, del resto, la centralità del mondo animale emerge in modo significativo, pur mediata dalle figure dei tre pigmei, la cui funzione è soprattutto strumentale.

Winsor McCay - G. R. Chester, How the Pelican
got his Pouch. A tale of the Jungle Imps
(1903)

Nella più celebre serie di Swinnerton, Little Jimmy (1904), gli animali cedono invece il ruolo di protagonista ad un bambino e assumono la funzione di suoi accompagnatori: dapprima il cane bulldog chiamato Beans; in seguito Li’l Ole Bear, un orsetto che ricorda i primi funny animals disegnati dall’artista. La stessa modalità rappresentativa dell’animale fu utilizzata da Richard Felton Outcault in Buster Brown (1902), dove il fedele compagno del bambino protagonista è un cane pitt bull di nome Tige, e in Buddy Tucker (1905), dove si tratta di un orsetto. In tutti questi casi, pur essendo in grado di parlare, l’animale è raffigurato essenzialmente nella sua natura domestica e subisce un processo di antropomorfizzazione meno radicale. Esempi simili di animali utilizzati come personaggi di supporto, ma che possono denotare anche un’antropomorfizzazione più marcata, si ritrovano del resto tra le figure di contorno in molte altre strisce.

J. R. Bray, Little Johnny
and the Teddy Bears (1908)
Tra gli animali più frequentemente utilizzati in questo senso, un posto di rilievo spetta in particolare all’orso: esso compare ad esempio nella figura dell’orso bianco Fuzzy White, accompagnato da due cuccioli di leone, nel Billy Bounce (1901) di William Wallace Denslow (serie poi disegnata anche da Charles William Kahles), così come negli orsi di Little Growling Bird in Windego Land (A. T. Crichton, 1906) e negli orsetti di peluche di Little Johnny and the Teddy Bears (John Randolph Bray, 1907). La popolarità di questo animale, già da Swinnerton raffigurato come piccolo e grazioso, conseguì soprattutto dal fatto di cronaca che nel 1902 vide Theodore Roosevelt risparmiare durante una battuta di caccia un esemplare di orso: immortalato da una vignetta dell’illustratore satirico Clifford K. Berryman e battezzato dai quotidiani “Teddy Bear”, nel giro di breve tempo l’orsetto divenne non solo una sorta di mascotte dell’allora presidente degli Stati Uniti, ma anche l’iconico giocattolo di pezza ancora oggi conosciuto con quel nome.

Se il Buster Brown di Outcault fornisce il modello tipico del fumetto in cui l’animale assume un ruolo di accompagnatore della figura umana, le serie create in precedenza da Swinnerton rappresentano per la prima volta un universo interamente popolato da figure animali antropomorfizzate secondo due modalità: singole tavole concepite come grandi affreschi dove emergono la molteplicità, la polifonia ed il disordine del regno animale (è il caso della serie Mount Ararat); strisce a fumetti dalla struttura sequenziale, basate su un benché minimo intreccio narrativo (è il caso di The Little Bears, The Little Tigers e Mr. Jack). La prima modalità rappresentativa conosce già nei primissimi anni del XX secolo numerose declinazioni, che vanno dal bestiario caotico e grottesco dell’Animal Land (1901) di Walter “Brad” Bradford alla parodia della società borghese nel mondo interamente popolato da gatti della Catville (1909) di Louis Wain – artista del resto celeberrimo per la sua assoluta fissazione felina –, passando per gli orsi “politicamente scorretti” di Gene Carr in una breve serie che richiama da vicino il modello di Swinnerton (Bearville, 1901) e approdando infine all’universo microscopico e poetico di Bugville (1900), raffinata creazione del geniale quanto sfortunato Gus Dirks (fratello di Rudolph, autore dei Katzenjammer Kids), morto suicida nel 1902 all’età di ventitré anni.

Jimmy Swinnerton, Mount Ararat (1903)

Louis Wain, Catville (1909)

Gus Dirks, Bugville (1900)

Hans Horina,
The Bear Boys (1907)
Per quanto riguarda invece i fumetti dalla struttura sequenziale, alcuni artisti che hanno mostrato una particolare predilezione per la formula funny animals sono lo statunitense Gus Mager e il tedesco Hans Horina: il primo creatore delle scimmie antropomorfe che compaiono in The Monks (1904); il secondo autore di un bestiario più variegato ma costantemente legato ad una tematica familiare, dagli orsi di The Bear Boys (1906) ai rinoceronti di The Rhinocerous Boys (1907) passando per leoni, giraffe, elefanti ed altri animali della giungla. Uno scenario simile fa da sfondo alle simpatiche avventure di In the Jungle (Carl Anderson, 1903), dominate dalle tondeggianti figure antropomorfe di ippopotami ed elefanti, e alla serie Hippo and the Monks (1906) di Jack L. Gallagher, dove un signor ippopotamo è vittima degli scherzi di alcune scimmie beffarde.

A. D. Reed, Little Quacks (1904)
Se il mondo della giungla è senz’altro il riferimento prediletto per la maggior parte di questi fumetti, il motivo della famiglia di animali antropomorfi è stato talvolta applicato ad una fauna meno connotata in senso esotico, ad esempio in relazione agli animali della fattoria, come attestano i maiali “borghesi” in Tommy Hogg (1904) di Pollard, ad animali acquatici, come i pesci impegnati ad affrontare le varie traversie quotidiane nelle storie di Ed Goewey (The Fish Family, 1904) e i paperotti dispettosi di A. D. Reed (Little Quacks, 1904), e ad animali nativi del Nord America, come i procioni di Charles M. Payne (Coon Hollow Folks, 1900) e di  Charles “Bart” Bartholomew (Billy Coon, 1904). Figure di un mondo favolistico e dal gusto più infantile, ispirate alle atmosfere delle fiabe e delineate in un grazioso stile da nursery, sono invece gli animali che Grace Drayton raffigura in Pussy Pumpkin and Her Chum Toodles (1903), serie dedicata alle avventure di una bambina e di una gattina antropomorfa.

Gus Mager, Monks [And Then Papa Came!] (1904)

Carl Anderson, In the Jungle [The Jungle Twins] (1905)

La gran parte di queste serie ebbe una durata ridotta, spesso stimabile in termini di mesi più che di anni, a causa di una prassi per cui i disegnatori erano in genere portati a sviluppare nuove storie piuttosto che a concentrarsi su quelle esistenti. Il numero tutt’altro che esiguo di queste serie e la molteplicità di soluzioni espressive in esse riscontrabili (calibrate di volta in volta sul linguaggio della parodia, su una comicità di tipo slapstick o su particolari modalità di resa figurativa, o ancora legate ad un immaginario favolistico, esotico, urbano oppure domestico) sono del resto segnali di una tendenza in costante espansione che va di pari passi con la nascita e la diffusione del linguaggio del fumetto ed è irriducibile all’influenza di un singolo autore. 

Una buona percentuale di questi fumetti risalenti al primo decennio del ‘900, in ogni caso, è costituita da opere di scarso valore e importanza storica, tipicamente create per imitazione di un modello influente. Eccezioni a parte, bisognerà attendere ancora qualche anno per assistere alla comparsa dei funny animals come protagonisti di serie originali, qualitativamente rilevanti e storicamente memorabili: nel 1913 esordirà Krazy Kat di George Herriman, che approderà anche sul grande schermo in una serie di cortometraggi animati (1916); nel 1920 verrà pubblicata la prima striscia del Peter Rabbit (1920) di Harrison Cady, esempio del fruttuoso dialogo instaurato tra fumetto e letteratura per l’infanzia; nel 1923 verrà trasposto a fumetti Felix the Cat (1923), creazione di Pat Sullivan e Otto Messmer nata come eroe del cinema di animazione (1919), e in questo ambito antesignano dei grandi funny animals targati Walt Disney, Oswald the Lucky Rabbit (1927) e Mickey Mouse (1928).

Pollard, Tommy Hogg (1905)

Grace Drayton, Pussy Pumpkin and Her Chum Toodles (1903)