
Ciò che dice l’avatar del dirigente scolastico Alfonso D’Ambrosio, o meglio ciò che l’IA gli ha fatto dire in questo breve video, è molto istruttivo circa il modo in cui un pensiero artificiale (anzi, una serie di parole che simulano un pensiero) può giungere a mistificare la realtà.
Anzitutto, l’avatar definisce “lezione registrata” un video che in realtà è completamente generato dall’IA. Inoltre, sostiene che non si tratta di una lezione “impersonale e generica”, perché nel video ci sono il volto e la voce dell’insegnante, tralasciando un piccolo particolare: non sono propriamente il volto e la voce dell’insegnante (come sarebbe se lui stesso avesse registrato un video), ma soltanto riproduzioni digitali del suo volto e della sua voce. Infine, afferma che questa didattica a distanza generata dell’IA, fruibile “senza bisogno di essere presenti in diretta”, è “una didattica più vicina” e “più umana”.
Com’è possibile giungere a un tale livello di manipolazione del pensiero? Semplice: il dirigente che ha generato questo video ha delegato i suoi pensieri all’IA. Non si è preoccupato di scrivere un testo, ma ha chiesto all’IA di farlo al posto suo.
Immaginiamo questo modello di creazione di contenuti applicato al mestiere dell’insegnante. Dapprima, l’insegnante “dà in pasto” i suoi video per addestrare l’IA a simulare il suo volto, la sua voce, i suoi gesti ecc. Per fare ciò, deve aver registrato un numero di video tale da permettere all’IA di perfezionare la sua copia digitale. Quando ciò avviene, l’insegnante può proseguire con video ibridi (parole scritte da lui e lette dalla sua copia digitale). Infine, per incrementare la produzione di contenuti, incoraggiato dalla rapidità della procedura, non si pone nemmeno più il problema di scrivere: le sue lezioni non saranno più lezioni registrate, né lezioni scritte dall’insegnante ma lette dalla sua copia digitale, bensì video completamente generati dall’IA. L’insegnante che dà in pasto i suoi video all’IA, condizionato da un sistema che premia l’efficienza e la produttività, finisce insomma per diventare l’insegnante che si fa mettere in bocca le parole dall’IA.
Questo scenario è già plausibile al giorno d’oggi, se pensiamo al fenomeno degli insegnanti-influencer, all’influenza delle loro “pillole digitali” e alla loro popolarità mediatica. Ma possiamo davvero continuare a chiamare “insegnante” questo content creator che produce (anzi, fa produrre all’IA) video con pochi click? E con che coraggio possiamo definire “scuola” una piattaforma di contenuti digitali, o “lezione” un video generato dall’IA? Lo stesso uso dei termini “intelligenza” e “generativo”, riguardo all’IA, è una pura mistificazione, perché attribuisce facoltà umane a ciò che umano non è.
Così come pura mistificazione è il messaggio finale del video, che riecheggia molti slogan sulla necessità della transizione digitale a scuola. Una perfetta sequenza di parole artificiali, prive di pensiero, decontestualizzate: “Una scuola capace di innovare, senza perdere l’autenticità della relazione educativa. La tecnologia non ci sostituisce, ci potenzia. E oggi, grazie a strumenti come HeyGen, possiamo davvero moltiplicare il nostro tempo, la nostra voce e il nostro impatto”. (L’impatto ambientale sicuramente, aggiungo: se il consumo di energia per produrre un’immagine con IA equivale a quello per ricaricare uno smartphone, non oso immaginare a quanto ammonti per video del genere).
Un ultimo esempio: “Il futuro è già qui e in fondo sono ancora io che vi sto parlando”. In realtà a parlare è l’avatar digitale, che dopo aver sottratto il volto e la voce al dirigente è pronto a spacciarsi per lui.
Nei commenti, il dirigente si chiede: “La scuola è pronta a tutto questo?”. A questa domanda retorica vorrei rispondere con altre domande. Perché la scuola dovrebbe essere pronta a diventare una simulazione di sé stessa? A quali bisogni risponde il tentativo di smaterializzare la scuola e trasformarla in un grande mercato di contenuti digitali creati dall’IA, che presto non avranno più bisogno della mediazione umana, e nemmeno di aule, ma soltanto di un esercito di consumatori passivi chini sui loro dispositivi? A chi conviene tutto questo? E oltretutto, non sono già abbastanza evidenti gli effetti neurologici che tutti noi subiamo a causa dell’esposizione agli schermi, e che in bambini e adolescenti comportano gravi interferenze nello sviluppo cognitivo, cali di empatia e disturbi dell’attenzione, del sonno e dell’apprendimento?
A questa idea di futuro così cara ai magnati della tecnologia, che impone una scuola digitalizzata per tutti e a tutti i costi, dobbiamo avere il coraggio di opporre le nostre critiche, entrando nel merito di un discorso che spesso si fa scudo della sua astrattezza, e quasi sempre non coinvolge i diretti interessati (i quali, quando interpellati, offrono una visione ben più sincera e concreta di tanti sedicenti “esperti”).
Non è per paura, né per pigrizia o ignoranza, se molti insegnanti rifiutano un potere come quello dell’IA, che si fonda sullo sfruttamento e su un modello di sviluppo insostenibile e disumanizzante. Al contrario, è perché la scuola sia davvero in futuro una scuola reale e di qualità, frequentata da persone in carne e ossa, non da avatar digitali che articolano parole senza pensiero. Perché ci siano ancora alunni e insegnanti e perché la loro sia una vicinanza autentica e continuativa, non simulata né mediata da schermi. Una scuola in cui “relazioni”, “corpi”, “voci”, “sguardi” siano ancora parole vere, contestualizzabili, non strumentalizzate dall’IA (come nell’esempio del video). Una scuola, infine, che non rincorra l’influenza virale dei contenuti prodotti con un click, ma abbia a cuore la pratica lenta del linguaggio, del pensiero, della creazione ispirata e della conoscenza in tutte le loro dimensioni. Una scuola che per questo e altri aspetti possa andare controcorrente rispetto al mondo circostante, e magari ispirare nel suo piccolo i primi passi di un mondo migliore.
«Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche d’interpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi.»
Günther Anders, L’uomo è antiquato (II)