20/02/20

Il risveglio del robot. «Io sono Shingo» di Kazuo Umezu


[L’articolo è stato originariamente pubblicato su Fumettologica il 6/2/2020.]

Il primo amore di Atom, il robot bambino noto in Occidente come Astro Boy, è una bambina robot a lui molto simile, ma che è stata costruita per contenere all’interno del suo corpo una bomba. La loro storia è raccontata nell’ultima puntata della seconda serie animata (Astro’s First Love, 1981), e termina con un epilogo non altrettanto sconvolgente di quello della prima serie (dove Atom sacrificava la vita volando verso la superficie incandescente del Sole), ma più malinconico. Dopo aver assistito agli ultimi momenti di vita di Niki, smantellata per disinnescare la bomba, Atom è consapevole che non sarà in alcun modo possibile ricostruirla, e chiede allora a Ochanomizu di effettuare una curiosa operazione per tenere in vita ciò che è rimasto della bambina, ovvero le sue gambe, innestandole nel proprio corpo al posto di quelle originarie.

20/12/19

Le visioni di Giorgio Ghiotti


I libri di racconti promettono sempre piaceri singolari, perlopiù sconosciuti ai puristi del romanzo e a chi ha interiorizzato l’assurdo pregiudizio per cui si tratterebbe in ogni caso di testi più difficili da leggere, forse anche a causa dell’influenza di modelli “impuri” come quelli delle antologie scolastiche e delle raccolte di racconti a tema (illeggibili come opere organiche, salvo rare eccezioni). L’indice di una raccolta di racconti vera e propria, ad esempio, è incomparabilmente più suggestivo di qualsiasi altra soglia testuale, perché consente al lettore di immaginare la natura molteplice del libro che ha davanti con un margine di libertà quasi assoluto, lasciandosi guidare dall’ordine dei titoli, dalle parole ricorrenti e da altri piccoli indizi a caccia di corrispondenze più o meno segrete.

05/12/19

L’occhio del figlio, l’immagine del padre


Il termine “metaforico” è ripetuto più volte in Parasite (2019) di Bong Joon-ho, e riporta alla mente l’immagine delle serre bruciate in Burning (2018) di Lee Chang-dong – un altro film coreano ispirato a un racconto di Haruki Murakami –, o quella del misterioso elefante di An Elephant Sitting Still (2018) di Hu Bo. La metafora è una figura di confine tra presenza e assenza, reale e immaginario: deriva almeno in parte da una finzione, ma allude sempre a una particolare verità. In diversi film rappresentativi delle più importanti tradizioni cinematografiche asiatiche degli ultimi decenni – dal nuovo cinema di Hong Kong a quello taiwanese, passando per il Giappone, la Cina e la Corea del Sud –, espedienti come il ricorso a oggetti simbolici o medium iconici sono impiegati con grande coerenza per esprimere gli aspetti più nascosti di certe dinamiche sociali e familiari.

20/11/19

Smarrirsi a filo d’erba. «Fuori da noi» di Giovanna Zoboli


C’è un piccolo dettaglio che mi ha subito incuriosito sulla copertina di Fuori da noi, libro di Giovanna Zoboli pubblicato da Nuova Editrice Berti che raccoglie testi divaganti, nei quali l’infanzia e i ricordi di vita, divenuti racconti e riflessioni sulla letteratura, non cessano di interrogare il senso di «cose, piante, città» (dal nome di un gioco per bambini diffuso in tutto il mondo, che fornisce al volume il sottotitolo e la struttura). Non è il trifoglio che campeggia solitario nel prato, ma un filo d’erba che spunta più in alto degli altri al suo limite superiore, appena sotto il titolo. Al confine tra immagine e testo, questo singolo filo d’erba può essere letto anche come una virgola, di modo che «Fuori da noi» diventi «Fuori, da noi».

13/11/19

A scuola in Giappone. Una sbirciata sull’altro mondo


Il mio compagno di tavola, un bambino giapponese di otto anni, sta leggendo Tintin. È ora di pranzo, e mentre altri bambini preparano le porzioni l’aula è già diventata una mensa, con tutto l’occorrente disposto in ordine sui banchi raggruppati a isole. Il mio vicino ha invece il turno da cameriere, ma è la sua tovaglietta piena di treni a preannunciarmi il sogno che mi racconterà a breve, e che alla parola shinkansen mi richiamerà alla mente i due fratellini dello splendido I Wish (2011) di Hirokazu Koreeda, regista che in molti film ha dato voce al mondo dell’infanzia con rara sensibilità.