07/02/22

Il tesoro degli sciocchi e dei bambini


Una delle storie più curiose della tradizione novellistica italiana è quella di Ganfo il pellicciaio, contenuta nel Novelliere di Giovanni Sercambi (1348-1424). Gianni Celati la riscrisse nell’italiano d’oggi per l’antologia Novelle stralunate dopo Boccaccio, a cura di Elisabetta Menetti (Quodlibet 2012), e in un saggio intitolato “Lo spirito della novella” la riassunse in poche righe:
Ganfo va ai Bagni di Lucca per curarsi; ma quando deve entrare in acqua e vede tante persone, si chiede: “Tra tanti, come farò a riconoscermi?” Allora si mette un segno di croce sulla spalla, ed entrato in acqua guarda il segno e si dice: “Sì sono proprio io”. Poi però l’acqua spazza via il suo segno di croce e lo deposita su un altro bagnante, al quale Ganfo dice: “Tu sei io e io son tu”. E l’altro per mandarlo al diavolo gli risponde: “Va’ via, tu sei morto”. Al che Ganfo si crede morto, torna a casa, si stende sul letto, si lascia mettere nella bara. […] Poi, mentre lo portano al cimitero, per strada una cliente gli manda una maledizione, perché gli aveva portato una pelliccia da riparare e lui è morto senza restituirgliela. E Ganfo risponde nella bara: “Se io fossi vivo come sono morto, ti risponderei come si deve”.

10/02/21

Astro Boy. Una fiaba dell’era atomica


Nella primavera del 1945 le principali città giapponesi furono devastate dai bombardamenti aerei americani. Poiché la gran parte dei bambini erano stati sfollati nelle campagne, l’uscita del film animato Momotarō: Umi no Shinpei di Mitsuyo Seo avvenne quasi in sordina, ma per un singolo spettatore, nel teatro Shochikuza di Osaka miracolosamente risparmiato dagli incendi, rappresentò un evento fatale. Il “dio del manga” Osamu Tezuka era allora uno studente sedicenne, e di fronte all’atmosfera commossa che in molte scene della pellicola accompagna il richiamo patriottico alla struggente speranza per un futuro migliore sentì crescere in sé il desiderio di realizzare un cartone animato altrettanto emozionante.

22/12/20

Tomi Ungerer. Fuga dalla fine del mondo


L’ultimo albo illustrato di Tomi Ungerer (1931-2019), Non stop, uscì in Germania nel maggio 2019, appena tre mesi dopo la sua scomparsa. Come accade spesso in casi del genere, specie ad artisti considerati maestri, il libro venne accolto come un testamento, e fu tanto più atteso dal momento che rappresenta il tassello conclusivo di una carriera singolarmente eclettica e prolifica (più di 140 volumi, secondo il sito ufficiale). Di fronte all’ultimo lavoro dell’autore di classici per l’infanzia come I tre briganti (1961), L’uomo della Luna (1966), Il gigante di Zeralda (1967) e Otto. Autobiografia di un orsacchiotto (1999), ma anche di un corpus di libri inclassificabili, audaci e visionari, abilissimo nel giocare in modo provocatorio e intelligente con le convenzioni e i tabù dell’immaginario, definito da Maurice Sendak il più originale della sua epoca, sarebbe stato davvero difficile sottovalutare l’importanza di questa uscita, ma altrettanto difficile comprenderne subito e fino in fondo la portata, senza il proverbiale senno di poi.

09/11/20

Una biblioteca grande come il mondo


È un pomeriggio di agosto del 2019, poco dopo l’ora di pranzo, quando una passeggiata nel parco di Ueno sotto il sole cocente mi porta all’ingresso della International Library of Children’s Literature di Tokyo, in un’area dall’impressionante densità di verde, templi buddhisti e musei di ogni genere (si va dall’arte antica del Tokyo National Museum a quella contemporanea del Tokyo Metropolitan Art Museum, dalle opere occidentali del National Museum of Western Art alla scienza del National Museum of Nature and Science).

14/09/20

Gianni Rodari. Dove finiscono le favole senza fine


A un bambino dei nostri giorni il titolo Favole al telefono deve sembrare qualcosa di incredibilmente inattuale, quasi quanto quello delle Favole al telefonino con cui Fabian Negrin ha omaggiato il capolavoro rodariano nel 2010, a quasi cinquant’anni dalla sua uscita (1962). Oggi il termine telefonino è sempre meno utilizzato, forse perché chiunque si è reso conto che gli oggetti che teniamo con noi la maggior parte del tempo sono solo accidentalmente dei piccoli telefoni, e nonostante le inesauribili possibilità di comunicazione sembrano incapaci di restituire la strana sensazione di prossimità caratteristica di una telefonata.