21/01/16

L’eredità di Michel Tournier (1924-2016)


A paragone con le morti “celebri” che dall’inizio dell’anno hanno scosso il mondo dello spettacolo – David Bowie e Alan Rickman in primis –, la scomparsa di uno scrittore come Michel Tournier, per chi ha avuto modo di conoscere e apprezzare la sua opera letteraria, è accolta con una tristezza inversamente proporzionale all’indifferenza del grande pubblico. Se si esclude la Francia, paese natale dello scrittore, la notizia è passata quasi inosservata sui social network di tutto il mondo e così pure in Italia, dove i libri di Tournier – ricordava appena un paio di settimane fa Marco Belpoliti – sono pressoché sconosciuti ai lettori più giovani perché letteralmente spariti dalla circolazione.

Il fatto è tanto più grave se si considera la statura dell’autore in questione, degno di essere annoverato tra i maggiori scrittori europei del secondo ‘900. «Ora,» ha scritto ad esempio Bernard Pivot, presidente dell’Académie Goncourt, «non potrò più rispondere col suo nome alla domanda “chi è il più grande romanziere francese vivente?”». Quanto all’Italia, l’oblio in cui l’autore parrebbe caduto da anni (le ultime ristampe delle sue opere maggiori risalgono al 2010 e sono oggi reperibili in pochissime librerie) è un sintomo eloquente della difficoltà che il sistema culturale odierno incontra nella trasmissione dei suoi prodotti qualitativamente più rilevanti e meno omologati. «Il bello della cultura letteraria,» diceva poco più di un anno fa Martina Testa, intervistata da Timothy Small sulle sorti di un’editoria schiacciata dalle logiche industriali, «è la trasmissione di idee e immagini e storie complesse. Mi sembra però che oggi forse si stia perdendo l’attitudine alla complessità, al ragionamento che va oltre l’immediato, lo slogan, la foto, la cosa divertente. Penso che forse il rischio sia che sparisca un certo modo di vedere il mondo. Se sono a rischio di estinzione i libri, forse lo sono anche, diciamo, quella complessità narrativa, quella complessità immaginifica ed espressiva, che sono state per tanti anni dentro i libri».

In uno scenario di questo genere l’opera di Michel Tournier si direbbe esemplare di un certo tipo di letteratura destinato all’emarginazione, per non dire all’estinzione, proprio in virtù della sua irriducibile singolarità e complessità, o in altre parole per il fatto di essere letteratura nel senso più puro del termine. Eppure, tra la fine degli anni ‘60 e gli anni ‘70, l’importanza di Tournier nel campo del romanzo si misurava non solo sulla potenza delle prime opere, oggi considerate i suoi capolavori, ma anche sul loro eccezionale successo di pubblico stimabile in milioni di copie vendute e in decine di traduzioni diffuse in tutto il mondo: Venerdì o il limbo del Pacifico (Vendredi ou les Limbes du Pacifique, 1967, riedito anche nel 1971 in una versione per ragazzi divenuta un classico scolastico), Il re degli ontani (Le Roi des Aulnes, 1970, con cui vinse il premio Goncourt) e Le meteore (Les Météores, 1975).

La copertina della prima edizione italiana
di Venerdì o il limbo del Pacifico (Einaudi, 1968).

Il romanzo d’esordio, una rivisitazione al rovescio del Robinson Crusoe di Defoe dove l’eroe solitario e civilizzatore viene coinvolto dal selvaggio Venerdì in una regressione allo stato primitivo, è una parabola fantastica, intessuta di suggestioni filosofiche e antropologiche, sul divenire dell’umanità e sulla riscoperta dei suoi istinti originari. «Ad interessarmi,» scrisse l’autore, «non era l’unione di due civiltà a un dato stadio della loro evoluzione, ma la distruzione di ogni traccia di civiltà in un uomo sottomesso agli effetti abrasivi di una solitudine disumana, la messa a nudo dei fondamenti dell’essere e della vita, poi su questa tabula rasa la creazione di un nuovo mondo attraverso prove, colpi di sonda, scoperte, evidenze, estasi». Presentato in Italia da Einaudi nel 1968, il romanzo ebbe tra i suoi primi estimatori Italo Calvino, autore che può essere accostato a Tournier per molti aspetti, a partire dalla predilezione per una narrativa immaginifica e dall’interesse per il genere fiabesco.

Con Il re degli ontani Tournier portò a compimento un progetto ancora più ambizioso, la cui ispirazione iniziale – riversata dal 1958 in una prima stesura poi completamente riscritta – precedette quella di Venerdì: una storia oscura, fiabesca e carica di significati ambientata in epoca nazista, dove il dato storico, restituito con incredibile intensità naturalistica, è il veicolo di una trasfigurazione letteraria che trae le sue fonti principali dalla leggenda di San Cristoforo e dalla tradizione folkloristica germanica del Re degli elfi (Erlkönig, un poema scritto da Goethe nel 1782 e a sua volta tratto da una ballata tradizionale danese). L’antieroe del romanzo è un ambiguo gigante di nome Abel Tiffauges, personaggio eccentrico caratterizzato da una forte attrazione per i bambini e per tutto ciò che è giovane, le cui vicende e ossessioni private si intrecciano a doppio filo con il cupo destino della Germania nazista. Dopo l’infanzia e la giovinezza trascorse in un collegio francese, nel 1939 si arruola come soldato in Alsazia, prima di essere catturato, deportato nella Prussia orientale e infine trasferito nella fortezza di Kaltenborg, dove il Terzo Reich gli affida il compito di reclutare ragazzini da inviare al fronte. Ignaro della fine che attende i suoi ragazzi, Abel diviene in breve tempo il padrone della struttura, guadagnandosi la nomina di “orco”; la sua ultima fatica, però, avverrà nel segno della redenzione. Presentato in Italia nella traduzione di Oreste del Buono (Mondadori, 1971), il romanzo venne a molti anni di distanza trasposto in un film diretto da Volker Schlöndorff, con John Malkovich nel ruolo di Abel Tiffauges (Der Unhold, 1996, in italiano L’orco).

Michel Tournier, Le Roi des Aulnes. Un’edizione Gallimard del 1977.

Il tema del destino, svolto attraverso una narrazione dispiegata su un lungo arco temporale e su un vasto orizzonte geografico, venne ripreso da Tournier per la sua terza opera, Le meteorepubblicata in Italia in una magistrale traduzione di Maria Luisa Spaziani (Mondadori, 1979). «Il vero argomento di questi romanzi,» spiegò l’autore, «è la lenta metamorfosi del destino in vita, […] da meccanismo oscuro e coercitivo in slancio unanime e caloroso di un essere verso la propria realizzazione». Protagonisti della storia sono in questo caso Jean e Paul, due gemelli sottoposti nel corso del tempo, complice il confronto col mondo esterno, a un processo di differenziazione che allontanandoli in modo sempre più radicale da una perfetta unione primigenia li costringe a rimettere in discussione la propria identità.

Le opere successive di Tournier, benché meno fortunate, seguirono il solco tracciato dai primi romanzi nello sviluppo di una letteratura nutrita delle più varie suggestioni mitologiche, filosofiche, religiose e fiabesche ma al tempo stesso ancorata alla tradizione naturalistica di Flaubert e Zola, in aperto contrasto con le poetiche sperimentali del nouveau roman e in obbedienza a un’innata fiducia nella possibilità di raccontare storie dal respiro universale. Oltre ai romanzi Gaspare, Melchiorre e Baldassarre (Gaspard, Melchior et Balthazar, 1980), riscrittura della vicenda biblica relativa alla visita dei Re Magi a Betlemme, Gilles e Jeanne (1983), storia che intreccia i destini di Gilles de Rais e di Giovanna d’Arco, e La goccia d’oro (La Goutte d’Or, 1985), sul viaggio iniziatico di un ragazzino africano alla scoperta di Parigi, si ricordano anche alcune raccolte di racconti come Il gallo cedrone (Le Coq de bruyère, 1978), che accoglie testi narrativi di varia ispirazione, e Mezzanotte d’amore (Le Médianoche amoureux, 1989), sul modello del Decameron boccaccesco.


Al di là della produzione letteraria, l’eredità di Tournier risiede poi più in generale nella sua natura di pensatore lucido ed eclettico, capace di interrogare la realtà da prospettive inedite e talvolta di schierarsi apertamente contro alcuni modelli dell’odierna cultura occidentale (famosa ad esempio è la sua dura condanna della pratica dell’aborto). La scelta di una vita semplice a Choisel, un comune di 500 abitanti, salvo in occasione di viaggi in giro per il mondo, è forse il segno più tangibile dell’indole rara e anticonvenzionale che gli fu propria. «Essendo nato a Parigi,» scrisse a proposito di un’avversione per le grandi città inospitali e disumane che risaliva all’infanzia, «mi sento come se non fossi nato da nessuna parte, caduto dal cielo, meteora». E riguardo alla società moderna, riallacciandosi al mito di Robinson Crusoe e a una riflessione sulla condizione dell’uomo nelle grandi città che riecheggia il pensiero di Rousseau: «a me sembra che questa crescente solitudine sia la piaga più perniciosa dell’uomo occidentale contemporaneo. L’uomo soffre sempre più di solitudine perché gode di una ricchezza e di una libertà sempre maggiori». Una «gabbia di vetro,» osserva, che è il portato di un’educazione condotta all’insegna della repressione sistematica di istinti vitali, radicati nella sfera dei sensi. «Quanto ai bambini, è semplicemente orribile gettare loro bambole o animali per ingannare il loro desiderio di un corpo amico e caldo. […] Il loro sconforto è l’invenzione di una società terribilmente antifisica, mutilante e castrante, e nessuno può mettere in dubbio che alcune turbe caratteriali, le esplosioni di violenza, ed anche la tossicomania giovanile siano conseguenze del deserto fisico in cui le nostre abitudini esiliano il bambino e l’adolescente».

Di qui, per lo scrittore, la netta propensione per una letteratura aperta alle varie suggestioni di un immaginario pulsante, sensuale e polimorfo, che Italo Calvino ha ricondotto all’abitudine di «erotizzare la cultura» in un gioco tra segni e significati particolarmente fecondo. Ciò, per Tournier, significava comprendere che la letteratura, come l’arte in generale, non occupa una sfera a sé stante dell’esperienza umana – ghettizzata in un museo, relegata in una torre d’avorio –, ma le coincide in ogni sua minima manifestazione. «Il genio è lì dal momento che qualcuno esiste, agisce, cammina, sorride, parla in maniera inimitabile, unica, evocando l’infinito che ogni atto creativo contiene. Dipende soltanto da noi vederlo e, avendolo visto, festeggiarne l’esistenza.» La citazione, come altre più sopra, è tratta da Il vento Paracleto (Le Vent Paraclet, 1978), una raccolta di illuminanti saggi che sono tra i lasciti più preziosi della sua eredità.